
FINO ALL’ULTIMA GOCCIA
Di Tony Musicco
Gli occhi di Friedrich erano puntati verso il grande manto verde, con lo sguardo posato e fisso sui faggi che risplendevano al sole. Un respiro profondo, rilassato, venne fuori dalle sue narici a firmare la serenità che lo cullava in quel momento.
Il gomito destro di Friedrich era poggiato sul tavolino e faceva da sostegno alla mano che reggeva a sua volta la tazza di caffè.
Il bar era vuoto. Friedrich staccò lo sguardo dalle margherite e lo proiettò verso il bancone in fondo, dietro al quale vide Tom, il barista, che riponeva le tazzine vuote appena lavate sulla parte superiore della macchina del caffè.
Nel locale risuonava soffusamente “I want you” di Bob Dylan. Friedrich si sentiva cullato dal caldo del giorno che riempiva il bar. Dopo aver fatto un altro sorso di caffè, socchiuse serenamente gli occhi. Ad un certo punto, un forte rumore metallico lo fece sobbalzare dalla sedia. Si girò di scatto alla sua sinistra e vide un cappotto nero che avvolgeva un uomo brizzolato sulla quarantina con grossi baffi, con una sciarpa al collo e un grosso zaino rosso in spalla.
«Buongiorno Fred». Gregory maledetto. Hai rovinato tutto. Rispondo al suo saluto con un gesto delle sopracciglia. E mi rigiro. Guardo la tazza che ho in mano, guardo una brodaglia che forse solo nel colore ricorda un vero caffè. Alzo gli occhi e guardo per l’ultima volta quei faggi stampati su un poster di una veduta di Gran Burrone de ‘Il Signore degli Anelli’, con tanto di Frodo che mi guarda dal porticato degli elfi. Vorrei tanto sapere chi ha attaccato quest’immagine. Chiunque sia stato, pensava davvero che potesse dare una qualche sensazione positiva qua dentro?
Blocco Bob Dylan che continua a cantare dal mio cellulare. Maledetto Gregory. Tutti dormono e c’è un gran silenzio. Con questa tranquillità mi era venuto benissimo immaginarmi altrove. Ero riuscito a prendermi in giro alla grande. Quanto mi manca il gusto di un vero caffè. Quanto mi manca l’Aurora Cafè. I
suoi colori, le chiacchiere con Tom mentre bevo il mio bel tazzone di caffè nero fumante.
«Fred, che c’è?»
«Niente Greg. Niente. Sei andato a prendere provviste?»
«Si, ma non ho trovato granché. Solo qualche scatoletta di tonno e delle bottiglie di salsa. Chi è passato prima di me non ha lasciato nient’altro». Mentre parla, un forte boato si sente dall’alto accompagnato da delle vibrazioni che fanno lampeggiare l’odiosissima luce gialla proveniente dalla lampada in mezzo alla stanza. Bombe a quest’ora del mattino. Assurdo. Sono tre giorni che me ne sto rinchiuso in questo rifugio per colpa delle bombe. Tre giorni di esplosioni continue. Avevo in programma di andar via oggi, proprio dopo aver finito lo pseudo caffè. Invece no.
Gregory corre nella stanza dormitorio. Sicuramente sta andando da sua moglie. Che bello deve essere avere qualcuno di cui preoccuparsi e che a sua volta si preoccupa per te; qualcuno che attende che torni, che teme per la tua vita. Nessuno attende me, nascosto in qualche rifugio o al di là del confine. Non c’è nessuno per me.
Sento voci agitate provenire dall’altra stanza. Sicuramente l’esplosione ha svegliato tutti. Io, invece, sto pensando che ho bisogno di un altro caffè.
Ore 20.00
Non si spara più da qualche ora. Me ne sto sdraiato sulla mia brandina: gli occhi puntati sulle definizioni delle parole crociate, ma non riesco a comprenderle. Sento come se la mia mente fosse vuota. Sono stanco, davvero stanco. Ma non riesco a dormire da giorni.
Ore 06.37
I miei occhi sono aperti, sbarrati. Puntano al soffitto. Non sento il minimo rumore. E se andassi via adesso? Mi alzo di scatto, mi rimetto le scarpe e prendo
lo zaino, mio unico bagaglio. Infine, metto il giubbotto e mi dirigo verso l’uscita.
«Fred?». Gregory.
«Greg.»
«Ma dove vai?»
«Dove credi che stia andando? Fuori.»
«Ma sei pazzo?»
«Devo raggiungere il confine, Greg. Tu hai qualcuno per cui vale la pena restare qui, io no. Ho solo me stesso e devo portarmi lontano da qui. Addio.»
«Buona fortuna.»
Sono fuori. In alto il cielo si schiarisce per accogliere il sole del nuovo giorno. Attorno a me solo silenzio. Si alza un vento leggero e muto, si percepisce solo la sua carezza, senza alcun rumore. Respiro profondamente. Tutta questa calma attorno a me è così strana. Come è possibile che dopo le bombe ci sia così tanta tranquillità?
Decido finalmente di immergermi in questa quiete e camminare. Mi dirigo verso nord, immettendomi sulla Fato Street. Noto che questa zona della città è ancora intatta. Nel cielo vedo dei rivoli di fumo che arrivano da est, dove stanotte hanno fatto festa con le bombe. Questa zona sarà la prossima e io devo sbrigarmi.
Mentre cammino, il silenzio viene interrotto di tanto in tanto da voci, pianti di bambini e adulti, imprecazioni. Questi palazzi ospitano ancora vita. C’è chi ancora non si è arreso all’idea di rintanarsi in un rifugio o di lasciare la città; gente che ancora non vuole rinunciare alla propria casa, che non vuole rinunciare alla normalità e alla dignità. Come fate? Come fate a restare lì dove siete, nonostante la pioggia di bombe che fa vibrare la città? Dove trovate il coraggio e la forza per restare saldi con le vostre radici?
D’un tratto, mi ritrovo per terra. Mi tiro su e mi accorgo di essere inciampato su di un pezzo di marmo. Sembra il pezzo di un cornicione. Mi guardo attorno e vedo che ce ne sono degli altri. È la zona vecchia. Qui i palazzi hanno alle spalle tantissimi anni e soffrono le vibrazioni dei bombardamenti come fossero dei piccoli terremoti. E piovono calcinacci. Mi guardo ancora attorno, faccio un passo senza guardare per terra e inciampo di nuovo. Mentre mi tiro su guardo davanti a me e i miei occhi si spalancano fino all’inverosimile alla vista dell’insegna dell’Aurora Cafè. Guardo la vetrina e i tavoli interni e… la porta è aperta. Mi rimetto in piedi ed entro. All’interno è molto scuro, così scuro da farmi venire un senso di angoscia dentro. Sento un rumore venire dalla cucina. La paura bussa sul cuore e i battiti si fanno sentire. La porta saloon si apre e dalla cucina viene fuori Tom. Ha lo sguardo basso, come preso da chissà quali pensieri. Poi alza la testa e mi vede. E di scatto si tiene il petto con la mano.
«Friedrich!»
«Tom!»
«Buon Dio. Mi hai fatto prendere un colpo. Pensavo fossi un soldato». Sorrido e mi avvicino.
«Che ci fai qui?»
«Sono venuto a prendere un po’ di roba per portarla a casa. Serve più lì che qua». Io mi guardo attorno e, preso da un’illuminazione, mi rigiro di scatto verso di lui.
«Tom, posso chiederti un favore?»
«Cosa?»
«Mi prepareresti un caffè?». Lui tira su con il naso e mi guarda come se stesse guardando un pazzo.
«Che? Ma sei scemo?». Io intreccio le mani verso di lui.
«Ti prego». Tom sbuffa e guarda in basso.
«E va bene. Ma dobbiamo fare in fretta. Prima andiamo via da qui, meglio sarà». Io annuisco freneticamente, come un bambino che ringrazia dopo che il papà gli concede un ultimo giro di giostra dopo averlo torturato con suppliche e piagnistei.
«Ecco qua». Finalmente. Una decina di minuti di attesa con il peso di un paio di ore. Il suono della tazzina posata sul piattino e quella scia di calore che si alza mi mandano in estasi. Non riesco a crederci. Prendo la tazzina e lentamente la porto alla bocca. Le mie narici percepiscono quel profumo inconfondibile e lo afferrano con forza. Arrivo alle labbra. Finalmente sento il caffè che scivola dentro di me. Chiudo gli occhi e sorrido. D’un tratto mi sento spingere in avanti da un vento improvviso, mentre le mie orecchie vengono avvolte dal suono orribile di un’esplosione.
«Maledizione! Lo sapevo. Dobbiamo andarcene da qui!» urla Tom correndo verso l’uscita. Sono frastornato. Un fischio prende a martellarmi in testa. Ho il giubbotto ricoperto di vetri rotti. Non sono sicuro di comprendere cosa stia succedendo. Seguo Tom. Mentre corro verso l’uscita, mi accorgo di avere ancora la tazzina in mano.
Esco dall’Aurora e vedo un palazzo di fronte a noi venire colpito da un missile. Tom corre verso sinistra, mentre un calcinaccio lo manca per un soffio. Io, d’istinto, comincio a correre dal lato opposto. Corro senza sapere dove sto andando. Corro e corro. Il mio cuore batte prepotentemente, come se volesse venire fuori dal mio petto; il fiato è velocissimo e insufficiente.
Attorno a me non sento più bombe ma proiettili. Sento spari e urla; sento porte sbattute e grida. Io corro. Corro finché sento qualcosa colpirmi la spalla. È un colpo così forte che mi fa girare su me stesso. E cado. Il dolore è lancinante. Non credo di aver mai provato un dolore così forte in tutta la mia vita. Vorrei urlare ma non ci riesco, vorrei sputare fuori tutto questo dolore, ma qualcosa mi blocca.
Sento odore di polvere e l’aria è piena di urla, alcune disperate, altre rabbiose, cattive. Davanti a me, ad un metro dalla mia faccia, c’è la tazzina che mi sono portato dietro dall’Aurora. La guardo mentre delle lacrime scendono a bagnarmi il viso. Vorrei urlare, piangere sul serio, ma quelle timide lacrime sono tutto ciò che riesco a tirar fuori. Resto a fissare la tazzina con fatica, ma gli occhi si fanno pesanti e la testa si fa sempre più leggera, troppo leggera. Poi gli occhi si chiudono e arriva il buio.
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Gentile Arianna, sicuramente si sarà trattato di un errore da parte di qualcuno che pensava si potesse inserire più volte lo stesso voto. Ci tengo a precisare e sottolineare che non è in atto nessun tipo di “strategia” per raccogliere voti “illecitamente” . Cordiali saluti e buon lavoro.
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