MORTAL ANATEMA DI STREGA

Racconto in concorso

MORTAL ANATEMA DI STREGA

Di Jessica Tommasi

Rintocco di campana

crepitio di lampo in cielo

dischiuse le palpebre, stanotte non dormiremo.

Si svegliò, madido di sudore: una sensazione acuta, pungente, che gli percorse la colonna vertebrale rendendolo nervoso fino alla punta delle dita. Con il cuore che batteva forte, tirò il lenzuolo fin sopra le spalle.

Poi registrò il dolore al polso.

Accese la lampada e guardò dove faceva male. Altro livido in arrivo, un’enorme contusione rossa che copriva l’attaccatura della mano e avvolgeva tutto il polso.

Un attimo dopo una striscia di luce lunare s’insinuò dalla finestra, illuminando un angolo della stanza, dove un’ombra si mosse rasente al muro.

L’essere era vestito, dalla testa ai piedi, di un drappo funebre di velluto di seta nera, fastosamente ricamata: pareva una cappa spagnola e ricopriva il corpo in un abbraccio fiacco e amorfo, nascondendone le fattezze. La sua testa era adorna di nere piume, quelle usate per i carri funebri, che la creatura si divertiva ad agitare avanti e indietro con aria sbarazzina. Rideva sommessamente da sotto una maschera: era chiara, color avorio e caratterizzata da un grande becco ricurvo, la cui protuberanza, cava, era satura di spezie ed erbe medicamentose, atte a scongiurare l’incubo.

Dei puntini danzarono davanti agli occhi del vecchio, si allargarono, crebbero, finché tutto il mondo non divenne scuro.

Ricovero in infermeria, 1965

Frattanto, man mano che il tempo passa, comincio a non sentirmi bene. Sono afflitto da un torpore alla testa, unito a un malessere generale che, sebbene non mi impediscano di vivere normalmente, sono tuttavia molto fastidiosi e vanno aumentando giorno dopo giorno. Non rendendomi conto della causa, ho smesso di mangiare quasi ogni vivanda, limitandomi al solo pane e alle sempre onnipresenti mele. Ho preso anche a bere molta acqua presso i lavatoi: qui, addossato al muretto, c’è un tubo bucherellato dal quale zampilla in continuazione dell’acqua fresca e buona. Perciò mi reco là a bere più volte al dì. Forse quell’acqua mi è di aiuto per purificare il corpo, se ben ho realizzato la causa del mio malessere, ma, come dicevo, la situazione va costantemente peggiorando. Una mattina, sentendomi più male del solito, chiesi al maresciallo il permesso di recarmi in infermeria per una visita di controllo ed egli me lo concesse subito. In astanteria mi fu misurata la temperatura. Non mi fu detto che valore avesse, ma si è disposto che venissi ricoverato nel Padiglione.

Il tardo pomeriggio portò con sé un nuovo dilemma: cosa fare?

Quando la polizia se ne fu andata, la donna richiuse la porta e imboccò il corridoio a destra, diretta alle sue stanze. La prima cosa che fece fu di cambiarsi d’abito e gettare l’ampolloso vestito a terra. Aprì l’armadio e tirò fuori “i vestiti da lavoro”; così aveva soprannominato gli indumenti indossati in casa, in assenza di ospiti: un’ampia vestaglia di seta azzurrina, senza fronzoli né ricami, coordinata a un altrettanto essenziale coprispalle.

Raccolse infine i capelli in uno chignon. Quando si guardò allo specchio riconobbe il suo riflesso, senza ninnoli, boccoli o cipria sul volto.

Uscì dalla stanza e riattraversò il corridoio. Questa volta era diretta alle stanze del suo povero consorte. Era invalido da undici anni ormai, ma le pareti conservavano ancora l’odore di quando era giovanile e sobrio. Le sarebbe bastato chiudere gli occhi per trovarselo lì, davanti a lei, come allora, con lo sguardo gentile e i lunghi capelli pettinati con cura.

Mosse un paio di passi al buio, tastando con le mani le strette pareti, prima di trovare la lampada a olio, sovente usata nei momenti in cui l’illuminazione partiva. L’accese con un fiammifero e cominciò a scendere la scala. Non era tanto lunga, ma i gradini erano ripidi. Bastava una piccola distrazione per cadere.

Giunta alla fine della scalinata, la donna accese le altre lampade a olio sparse e attese di abituarsi all’umidità che impregnava l’ambiente.

Si lasciò sfuggire un sospiro trattenuto a stento e, dopo essersi lisciata per l’ennesima volta la veste con le mani rugose, bussò.

«Caro, sono io. Posso entrare?».

Non ricevendo alcuna risposta dall’altra parte, afferrò la maniglia lentamente, con timore e riverenza.

Nella stanza, le pareti si vedevano appena, coperte da scaffali pieni di libri e mobili traboccanti di strani marchingegni e fogli di carta vergati a mano. I progetti erano accatastati ovunque, ma era difficile decifrare i disegni e la calligrafia confusa.

«Ero sdraiato sulla brandina durante il servizio militare…», preannunciò la voce.

«Oh, caro, conosco questa storia!», gli disse di rimando la donna mentre gli posava una mano sulla spalla, per rassicurarlo.

L’anziano, seduto su una poltroncina imbottita e sgualcita, intrecciò le dita a quelle di lei.

«Ammira con me il cielo, sicché sarà l’ultima volta, lo so! Io l’ho visto e nessuno, nessuno dico, mi crede!».

Turbata dalla rivelazione, la donna lo ammonì prontamente, in un filo di voce tremante.

«Vaneggi e questo luogo – il tuo studio personale – non fa altro che ingarbugliarti le idee! Non è salutare alla tua condizione! Perché non mi ascolti e non torni, con me, di sopra?»

L’uomo non la degnò d’attenzione, perduto nella propria mente delirante. La moglie, pur desiderosa di attirare le attenzioni del vecchio soldato, non approfondì la questione.

«La tazza, che ti ho portato prima dell’arrivo della polizia, è intonsa!» fece la donna, indicando con un movimento del mento il tavolo a fianco dell’uomo, a mo’ di rimprovero.

Questi sgranò talmente tanto gli occhi che, per un attimo, riapparvero di nuovo vividi e lucidi, come nei suoi anni migliori.

«La polizia? Sciocchezze! Nessun essere terreno può qualcosa dinnanzi a Lui!» sbraitò d’un tratto il vecchio, conficcando le unghie della mano libera nell’imbottitura della seduta.

Alla donna era presa la voglia di ribattere prontamente, sminuendo quanto affermato dal malato marito, ma non ne ebbe il tempo. L’uomo amato per tutti quegli anni fu colto da una tosse persistente e fastidiosa, che gli mozzava il respiro, indebolendolo ancora di più.

«Calmati, ti prego, calmati! Va bene, non parliamone più. Ecco, bevi a sorsetti un po’ d’infuso portentoso: anche se freddo e dal retrogusto amarognolo, ti aiuterà!», implorò. «Cosa vuoi che faccia?», gli chiese poi, dolcemente.

«Che ti congeda in modo da lasciarmi solo con i miei ultimi pensieri.»

La moglie non osò contraddirlo per quella volta e, avviandosi verso la porta, esclamò soltanto: «Ti chiamo quando la cena è pronta».

L’uomo si diresse alla scrivania, prese carta e penna e cominciò a redigere: “Se state leggendo questo foglio, una sorta di lettera-testamento, la conclusiva fatica delle mie membra stanche, significa che non sono più tra voi, nel mondo dei vivi, bensì approdato nel mondo delle ombre e delle pestilenze, dove pago lo scotto della mia esistenza terrena…”

Si tentò il tutto per tutto.

Si cercò di svegliare il dormiente, facendolo tornare a uno stato di vigile coscienza, ma il suo corpo era rigido – le labbra erano livide – i suoi occhi privi del riflesso vitale.

“Causa del decesso: peste polmonare, con deliri onirici e allucinazioni da anni latenti, presumibilmente causati dalla precedenza esperienza militare.”

La moglie, l’ultima persona a vedere e a parlare con la vittima, vacillò all’indietro verso il tavolo, la mano cadde su una tazza incrinata e la consapevolezza della terribile verità le balenò improvvisamente nel cuore angosciato.

Lei ha messo fine al mondo.

Lui ha sigillato la sua bara.

Una risposta.

  1. Samantha Pinazza ha detto:

    Voto per questo racconto

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