AL DI SOTTO DI VENEZIA

Racconto in concorso

AL DI SOTTO DI VENEZIA

Di Chiara Caglioti

La scritta Vianella luccicò appena sotto la luce calda dei lampioni, emanando un bagliore dorato. Un attimo dopo scomparve sotto l’acqua: la laguna sottostante si era increspata, schizzando sulle lettere e sul legno massiccio della gondola, che ondeggiò con leggerezza. Un odore nauseabondo mi riempì le narici, un misto tra putrefazione e salsedine. Arricciai il naso; Venezia poteva anche essere una bella città, ma il tanfo che diffondeva si poteva descrivere con una sola parola: ripugnante.
Soffermai lo sguardo su un piccolo leone alato, raffigurato sul ferro della prua; poi, ritornando alla scritta brillante che citava il mio cognome, scesi alcuni gradini, avvicinandomi così all’imbarcazione.
Lì rannicchiato, c’era mio padre.
«Papà» sussurrai, «svegliati. È ora di tornare a casa».
«Gioia» biascicò lui. «Cosa… ?»
Si tirò su a sedere, raddrizzò gli occhiali finiti di traverso e fece un enorme sbadiglio.
«Ostregheta!» sussultò, sgranando gli occhi. «Ma che ore sono?»
Controllai l’orologio, che segnava l’una e trentadue di notte; quindi gli mostrai il quadrante luminoso.
«Fantastico» proclamò, massaggiandosi le tempie. Dopodiché mi tese la mano. «Aiuteresti un povero vecchio?»
«Povero vecchio?» ripetei, afferrandogliela. Lo aiutai ad alzarsi. «Questa sì che è buona».
«Quarant’anni non sono poi così pochi, sai?» spiegò con un’alzata di spalle.
«Eh, sì, sei proprio un nonnetto».
«Tu scherzi, ma non vedi? Ormai riesco ad addormentarmi ovunque».
Salii a bordo della barca, tenendo ben salda la chitarra classica. «Quella si chiama stanchezza» dissi, dandogli un bacio sulla guancia. «Non vecchiaia».
Lui mi sorrise.
Notai solo allora che stava ancora indossando i vestiti da lavoro: un paio di pantaloni neri abbinati a una t-shirt bianca a righe orizzontali rosse. Raccolsi da terra il suo cappello di paglia con il nastro scarlatto e, giocherellando con l’etichetta, mi sedetti sul fondo.
«Hai fatto fare il giro panoramico a tanti clienti oggi?» domandai.
«Diciamo che è stata una giornata impegnativa» confessò, strofinandosi con una mano quel poco di barba che aveva.
«Turno extra?»
Mio padre annuì. Si spostò all’estremità della poppa, rivolto verso la prua e iniziò a remare.
«Questo era l’ultimo giro, ma una volta che i turisti sono scesi devo essermi abbioccato» raccontò, mentre la gondola avanzava senza fretta attraverso il canale. «Tu invece?» squadrò la chitarra, «ti sei esibita in qualche calle?»
«Esatto».
Afferrando lo strumento, osservai mio padre con attenzione. Per un breve istante ebbi l’impressione di guardarmi attraverso uno specchio: stessi occhi color miele, stessi lineamenti¼ persino le nostre piccole lentiggini si somigliavano.
Presi a suonare alcune strofe di T’insegnerò, una vecchia canzone che mi aveva dedicato.
Le dita che mi si muovevano quasi senza sforzo.
La mente, libera di viaggiare.

«Papà» mormorai, le unghie che tamburellavano veloci sulla ringhiera del balcone. «Devo confessarti una cosa».
«Dimmi» disse lui.
Mi morsi l’interno della guancia. «Ricordi la sera del tre luglio?»
«E come scordarla?» rispose in tono euforico. «Siamo andati al concerto di Zucchero!»
«Sì, be’… non so quanto possa piacerti questa notizia».
Lui mi guardò come a dire: “Quale notizia?”
La voce mi tremò appena. «Quella sera ho conosciuto i miei nonni, ho conosciuto i tuoi genitori».
Gli occhi gli si spalancarono. «Loro…» sussurrò, appoggiandosi alla balconata. Si strofinò più volte la punta del naso, poi, d’improvviso, sorrise. «Sai, quando ero più giovane – per intenderci intorno ai diciannove anni – facevo il commesso in un piccolo negozietto di souvenir» sottolineò ogni parola con gesti rapidi delle mani. «Mia madre veniva a trovarmi ogni singolo giorno. Sai cosa mi diceva? Ripeteva: “Ara Riccardo te si drio tor ‘na bruta via”. Sai che significa?»
Feci cenno di no con la testa.
«Attento che stai prendendo una brutta strada».
Aggrottai la fronte. «E perché ti fa sorridere questa cosa?»
«Perché sposare tua madre è stata la scelta migliore che…»
«Ragazzi» ci interruppe lei dalla porta, «la cena è pronta. Venite?»
«Arriviamo subito, Nicole» rispose mio padre, concentrandosi su un vaso di petunie. «Dacci solo ancora un momento».
«D’accordo».
Mia madre rientrò. Lanciai un’occhiata a mio padre, ancora assorto nei suoi pensieri, così distolsi lo sguardo. Osservai il corso d’acqua di sotto, domandandomi che cosa gli stesse passando per la testa. I vicini della casa di fronte schiamazzavano a tutto volume.
«Sono stufa, basta!»
«Fa’ come vuoi, tanto hai sempre ragione tu».
Che noia questi qui, pensai, tutte le sere la stessa storia.
Appoggiandomi alla ringhiera, mi ressi il capo con una mano; lo sguardo vagante.
Presto però, un’ombra attirò la mia attenzione. Un’ombra dentro la laguna. Mi sporsi per guardare meglio. Era grande ma… che cos’era?
Di fianco a me, le corde di una chitarra vibrarono, riportandomi alla realtà.
«Sai, Gioia» disse mio padre mentre mi voltavo verso di lui, lo strumento in mano. «Tu sarai sempre libera di amare chiunque tu voglia».

All’improvviso mi fermai. Calò un silenzio profondo, quasi innaturale, se solo non fosse stato per il gorgoglio della laguna.
Il mio sguardo si perse tra i profili delle case; infine, si posò sul riflesso di me e mio padre stagliato contro l’acqua scura: due chiome rosse si mescolavano con i colori della notte. Mi venne spontaneo sorridere. Dopo un po’, però, le labbra mi si contorsero in uno sbadiglio.
«Non vedo l’ora di tornare a casa e buttarmi nel letto» dissi, stiracchiandomi. «Sono esausta».
«Non dirlo a me» replicò mio padre.
«Sai, oggi è stata una giornata un po’ particolare. Ero con Regina e Carlotta in piazza San Marco…»
«Ssssst» m’interruppe lui, facendomi segno di fare silenzio. Si avvicinò a me, il remo ancora in mano. «Senti anche tu?»
Tesi l’orecchio e sì, la udii anch’io: era una voce, una melodia.
La pelle mi si accapponò: il suono, all’apparenza privo di significato, era dolce e armonioso, ipnotico e attraente. Spostai lo sguardo sulla laguna, notando che era molto più agitata. E per un breve, ma folle momento, desiderai inabissarmi al di sotto di Venezia. Poi, di punto in bianco, la musica cessò.
Subito mi sentii parecchio disorientata; diedi un’occhiata a mio padre, che pareva altrettanto confuso.
«Stai bene?» chiesi.
Ma prima ancora che lui potesse aprire bocca…
«Papà!» gridai, slanciandomi verso di lui. Tentai di afferrarlo. Malgrado ciò, fu troppo tardi: qualcosa era schizzato fuori dall’acqua, trascinandolo via con sé.
Mi alzai di scatto, la chitarra cadde a terra con un tonfo. Gridai il suo nome ma, ammesso che mi sentisse, non servì a nulla.
Che Dio mi aiuti, pregai.
Dopodiché, mi tuffai.
Fendetti l’acqua, ritrovandomi sommersa da litri e litri di quel liquido maleodorante. Il buio e il lerciume mi offuscavano la vista. Ritrassi in fretta le gambe: qualcosa di viscido mi aveva sfiorata. Delle alghe, forse.
Mi sforzai di vedere meglio, cercando di captare il minimo rumore. Lì, davanti ad alcune palafitte della città, una figura si mosse. Nuotando a rana, mi avvicinai di qualche metro. Piccoli pesci mi sguazzarono intorno, controcorrente. Presto scoprii il perché.
Grosse bolle mi uscirono di bocca, la melma rischiò di soffocarmi.
Mi trovai di fronte una creatura, incantevole e mostruosa al tempo stesso. La pelle – da quello che potevo vedere, di un verde oliva molto pallido – era ricoperta qua e là da piccole squame che si estendevano fino a un’ampia coda da pesce; i capelli neri, invece, incorniciavano un viso di donna.
Abbassai lo sguardo e vidi il mio terrore riflesso nel volto di mio padre.
Senza pensarci due volte, continuai a nuotare verso di loro. In sole due bracciate raggiunsi la coda della sirena, dove mio padre, avvinghiato, combatteva per la libertà con il lungo remo tra le mani.
Battei i pugni sulle dure scaglie verdi e oro. La sirena, non contenta della mia intromissione, emise uno strano stridio tutt’altro che aggraziato; dopodiché tentò di colpirmi con una delle sue mani palmate. Io la scansai, riprendendo a lottare contro la coda, grande quasi quanto me.
Ma lei ci riprovò e questa volta mi sbatté contro alcune fondamenta. Aprì la bocca; mi resi conto che i suoi denti aguzzi sarebbero stati l’ultima cosa che avrei visto.
Poi sentii un forte rumore sopra la mia testa, seguito da un latrato di dolore. Mio padre era riuscito a darle una botta sul cranio con il remo.
Ormai senza fiato, lo raggiunsi e, afferrandolo per un braccio, iniziammo a risalire.
Inaspettatamente, però, la sirena mi colpì alle spalle. urlai di dolore, suscitando una marea di bolle. Inghiottii tanta di quell’acqua mista a polvere che mi venne spontaneo tossire, solo che il risultato fu ingoiare ancora più acqua. I miei polmoni parvero infuocarsi. Agitai in maniera convulsa gli arti, entrando nel panico. Poco dopo, la paura lasciò spazio a un’inconcepibile sensazione di calma e tranquillità.
Stavo morendo.
Per la prima volta, mi ritrovai a guardare la sirena negli occhi. Questi – di un bianco spettrale – erano privi sia di iridi che di pupille, eppure raccontavano qualcosa.
D’un tratto mi sentii piena di vita. Rigirandomi nell’acqua, agguantai dal fondale una vecchia bottiglia rotta e attaccai, dimenticando la carenza di ossigeno nei polmoni. Infilzai la sirena nella pancia. Quando si piegò in due, con un forte slancio, emersi in superficie.
L’aria fresca della notte mi sferzò il viso mentre una tosse violenta rischiò di bloccarmi il respiro. Sputai fuori una grossa quantità di acqua. Poi, ansimando, ripresi fiato.
«Gioia!» urlò mio padre, lungo disteso su un gradino costeggiato da un ponte.
Gli nuotai incontro, le lacrime che mi scorrevano sul viso già bagnato. Uscii dall’acqua. D’improvviso sbiancò, indicando qualcosa dietro di me. Mi voltai di scatto e rimasi abbagliata da una forte luce. Portai una mano davanti agli occhi. Quando il chiarore si affievolì, sentii la terra mancarmi sotto i piedi: due enormi ali padroneggiavano la mia schiena.
Guardai mio padre, la bocca spalancata.
«Il mio angelo» sussurrò.

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