UN’ANORMALE GIORNATA DI PIOGGIA
Di Federica Milella
Pioggia.
Che fosse un acquazzone, un temporale o una semplice pioggerellina, l’umanità era costretta a ripararsi all’interno delle proprie abitazioni, negli edifici pubblici o in un qualunque mezzo di trasporto, a patto che questi fossero interamente rivestiti di metallo. Questa era la legge, restrittiva come mai prima d’ora, entrata in vigore cinque anni addietro, dopo l’ultima pioggia acida, un violento temporale che sciolse chiunque fu sorpreso all’aperto e provocò danni inenarrabili alle grosse infrastrutture create dall’uomo.
Già da due secoli il mondo conviveva con la pioggia acida, un liquido capace di liquefare qualsiasi cosa, fatta eccezione per il metallo, la vegetazione e la maggior parte degli insetti.
In un borgo della provincia toscana, il cielo si nascondeva dietro grigie nubi, senza, però, promettere rovesci.
Roberto, il geometra di paese, più attento ad apparire che a essere, stava escogitando un sistema per dormire una manciata di minuti in più l’indomani mattina; doveva infatti seguire un corso sulla sicurezza nei cantieri, in città. La registrazione era prevista a partire dalle nove; passando dal bosco avrebbe recuperato una buona mezz’ora, piuttosto che guidare lungo la provinciale col traffico del mattino.
«Con la bici di nonno, i cinque chilometri di bosco li faccio in meno di venti minuti» ragionava a voce alta, «la lego a un albero e spunto dritto alla fermata del pullman».
Nessuno andava nei boschi, era vietato, non ci vivevano più nemmeno gli animali, ma per Roberto non era la prima volta, questo “trucchetto” lo aveva già usato in precedenza.
Alle 8:30 della mattina seguente, Roberto era in procinto di uscire dal garage. Si guardò intorno per non essere visto dai vicini – non era consentito l’uso della bicicletta all’aperto – prima di salire in sella si aggiustò il bavero e chiuse un deodorante nel borsello.
Il tempo era cambiato: un grigio chiaro tendente all’ocra, gli ricordava quel lunedì di cinque anni fa, quando suo fratello Alessandro – soprannominato misteriosamente Chicco, compresa loro madre che lo chiamava sempre “Chiccolino di caffè”, con quella voce così dolce da farti dimenticare il significato di certe parole – insieme ad altri culturisti della palestra, furono colti all’aperto da una violenta pioggia acida mentre si recavano a una gara di body-building. Nessuno aveva previsto quella pioggia, come tutte quelle precipitate negli ultimi quindici anni.
«Il Meteo fa schifo! Quando ero piccolo ci azzeccavano sempre. Al giorno d’oggi non riescono a indovinarne una» borbottava fra sé, addentrandosi nel bosco.
Nonostante avesse perso suo fratello minore, a Roberto non spaventava la pioggia acida. Era entrato in una specie di modalità di sfida, si sentiva più forte, lui non poteva essere toccato. Convinzione già latente fin da bambino, quando cercava, in fondo all’orto, quei mostri che i nonni dicevano apparire sempre e solo durante le piogge acide.
«Non ci andare, Nini. Quando piove escono i mostri acidi e ti portano via.»
“Boiate”, pensava lui; in realtà, nessuno li aveva mai visti, era solo una fiaba per spaventare i ragazzini più incoscienti.
Pedalava all’ombra delle frasche, accompagnato dallo scalpiccio delle ruote sulle foglie secche; quando sentì la mano bagnarsi, poi la guancia, «ahia!». Osservò le maniche della giacca: c’erano due forellini sull’avambraccio.
Aveva cominciato a piovere acido. Come era possibile? Il Comune non aveva emesso alcun allerta. Dovette ragionare in fretta.
«La “Uno Turbo ie”!»
Si ricordò di quel vecchio rottame abbandonato non molto distante da lui. Trovò l’auto e si riparò al suo interno, portando con sé la bici del nonno. Si scrutò addosso, non era ferito, ma dovette togliersi la giacca o avrebbero capito che era uscito senza protezioni. Doveva arrivare in città, non poteva perdere il corso, gli servivano i punti.
«Gli sportelli sono di metallo.» Disse, guardando le portiere divelte e accatastate lì fuori.
Fece un bel respiro e uscì, tenendo faticosamente sul capo uno degli sportelli della macchina.
L’idea sembrava funzionare, sarebbe arrivato tardi, ma ce l’avrebbe fatta.
Poi un baccano, un suono assordante e confuso si avvicinava alla sua sinistra.
Chi mai poteva essere? Gli animali non di sicuro, stavano tutti chiusi nelle riserve. La polizia? Possibile che lo avessero visto in bicicletta? Un vicino spione, forse.
Aveva la mente affollata da questi pensieri, provava anche un po’ di timore, non era un reato da poco uscire senza protezioni metalliche.
Mancava poco meno di un chilometro alla fine del bosco e allungò il passo, per quel che poteva consentire il peso che portava addosso. Il rumore lo seguiva, si avvicinava, era talmente imminente che a un tratto vide apparire davanti a sé due mostri!
Erano alti, massicci, due energumeni la cui pelle era ricoperta da crateri putrescenti, grondanti lo stesso acido che cadeva dal cielo, la loro faccia non era come quella che normalmente si attribuisce a un essere umano.
Roberto era pietrificato, i mostri invece camminavano inesorabili verso di lui. Si destò. «Non voglio certo morire così, meglio la galera» e provò a correre in direzione opposta alla loro. Fatti un paio di metri, si sentì sfinito, impossibile muoversi tenendo in mano lo sportello, le braccia cedettero sotto a quel peso che cadde a terra. Nonostante fosse attenuata dalle chiome degli alberi, la pioggia adesso lo bagnava, lo bruciava, i mostri invece ne erano immuni. Roberto riprese a correre, uno dei mostri afferrò la portiera e gliela scagliò contro, prendendolo di striscio.
Il geometra continuò la sua folle corsa priva di alcuna direzione; sentiva l’acido della pioggia bucargli la pelle, avvampava, il dolore si fece talmente forte che lo costrinse in ginocchioni.
I due mostri gli erano sopra, lo stesso che aveva lanciato lo sportello, gli afferrò un braccio e tirò Roberto a sé.
«Ah!»
Un lancinante grido di dolore uscì dalla bocca dell’uomo. La mano del mostro bruciava dell’acido di cui era bagnata. Riuscì a divincolarsi. Il mostro si chinò nuovamente su di lui, quando Roberto vide, appesa a quel collo deforme, una collanina di metallo, un ciondolo a forma di manubrio da palestra con al centro la lettera “A”. Fu travolto da un’emozione talmente forte che a stento riuscì a pronunciare quella parola: «Chicco?».
Il mostro si immobilizzò.
«Chiccolino di caffè!»
Il liquido che cadde sulle gambe di Roberto, colato da due fessure sul volto del mostro che potevano essere chiamate “occhi”, non gli bruciò i pantaloni.
Smise di piovere e in quell’attimo i due mostri si ritirarono, nascosti dalla fitta nebbia del bosco.
Roberto imparò a nascondere le nuove cicatrici sotto a una folta barba e non raccontò mai la sua avventura per non essere punito dalla legge. Nessuno seppe mai che aveva visto i mostri acidi, che forse erano come quelli raccontati da suo nonno per mettergli paura, che, in fondo, non erano cattivi come li descrivevano gli anziani e che non avrebbero portato via alcun bambino. Apparivano durante le piogge acide solo per aiutare chi era in difficoltà, porgendoti un riparo in metallo, o afferrandoti per un braccio al solo scopo di tirarti su, casomai tu fossi caduto.
O forse… sono solo due ragazzi molto robusti, sopravvissuti miracolosamente alla pioggia acida, pensò Roberto, rammentando la collanina di Chicco.
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Una fresca ventata di fantasia. Scorre bene e si legge d’un fiato.
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Mi è piaciuto molto
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Che bello! mi è piaciuto un botto!
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Brava la mia bimba.
Mamma! Non sono una bimba 😅
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Mi piace, ottimo
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Voto questo racconto! Molto carino!
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