LA LOCANDA

Racconto in concorso

LA LOCANDA

Di Davide Vendetta

Sul picco dei Devori l’incessante pioggia tamburellava sulla pietra creando un frastuono fino a valle, dove l’acqua scendeva svicolando fra i sentieri rocciosi. La tempesta in corso, le cui folate erano silenziate dalle precipitazioni, scoraggiava chiunque ad uscire… ad eccezione di una giovane ragazza.

Si trascinava in cima con tutta la stanchezza, coperta da una sola e scura cappa, la quale non le impediva di raffreddarsi o affondare gli scarponi nei torrenti. Uno scenario per nulla invitante e il cui solo pretesto per farsi strada si trovava nel caldo rifugio.

L’edificio in legno, nato come locanda per i viandanti, aveva assunto il ruolo di caserma nel periodo di forte agitazione che incombeva, poiché sempre più stregoni attaccavano villaggi umani convertendoli a cimiteri. La vetta forniva un punto strategico, oltre ad un panorama eccezionale nei giorni quieti.

Nonostante l’impiego attuale il posto rimaneva aperto ai viandanti, purché privi di minaccia.

Sotto l’alluvione non c’era altro luogo oltre quello per ripararsi. Già con uno sguardo dalle finestre si percepiva appieno il calore che, attraversando la pelle, dava un’impressione beata. Soprattutto in quella notte di festa.

I soldati avevano portato a termine un’importante campagna e, nella foga di quell’impresa, gustavano la vittoria, accompagnandola con un paio di porci e tutti i barili in grado di consumare.

Nella locanda un colore giallo arancio, proveniente da minerali lanternini, illuminava i soldati che seduti ai tavoli si perdevano in deliri filosofici e battute colorite, seguite da grugniti di risate. Si alzavano unicamente per rifornirsi al bancone, al lato opposto dalla porta, trattenendo i propri bisogni per non lasciarsi sfuggire una battuta, o permettere alla lucidità di riaffiorare.

“Brindiamo cazzo!” gridò un soldato rossiccio sbellicandosi.

“Ancora?! Stai brindando per ogni cosa.” affermò un soldato leggermente più lucido.

“E allora brindiamo ad ogni cosa” ribatté lui.

“Lascialo fare, anzi accontentiamolo…” si intromise il comandante Anselmo con tono serio, nonostante l’alito “facciamo un brindisi a tutto, e poi un altro. Allo sterminio di questi stregoni!”.

E tutti in coro esultarono: “Allo sterminio degli stregoni!”.

Stanca e affamata la ragazza arrancava quasi alla cieca, avanzando con spinte sulle rocce scivolose. Tenendo la testa bassa per non inciampare, tutto ciò che vedeva era blu scuro, niente che dava un riferimento per facilitarle il cammino. Era magra e nonostante la giovane età appariva già vecchia, ad occhio la presenza era quella di una mendicante con qualche disabilità e poca igiene dato il grigiore della pelle. In quel volto sciupato, reprimente un dolore straziante, a fare bella figura erano i soli occhi color nocciola.

Nel frattempo le chiacchiere da osteria non si fermavano, trovando piuttosto nuovi argomenti da trattare.

“Giovanni non ti vedo contento.” notò Federico fissando il compagno.

“È che mi stava venendo un pensiero.”

“Quale?!”

“Abbiamo anche vinto, ma sono riusciti comunque a fare cose orribili quei bastardi.”

“Purtroppo hanno un potere enorme, queste armi magiche che scolpiscono nelle rocce runiche… sono qualcosa di devastante.”

“Già come quella pistola che aveva il maestro stregone che abbiamo trucidato oggi.”

“Quella non era una pistola, quelle sono scolpite in piccole e comuni rune, quella che aveva lui si chiamava fucile.”

“Insomma quella. È ingiusto che abbiano armi così, mentre noi dobbiamo accontentarci di spade e scudi. Ho visto perfettamente cosa può fare, con un sparo ha gettato raggi viola che esplodevano in tutte le direzioni, perforavano e scioglievano addirittura la roccia.”

“Lo so, hanno un potere immenso, ma quando salteranno in aria i monoliti da cui ricavano le armi… beh, gli converrà fuggire.”

“Niente più pistole, mitragliatori, granate o altre stramberie magiche. Magari.”

“Saranno disarmati e noi potremmo massacrarli senza problemi. Così la brava gente vivrà bene.”.

I due alzarono i boccali e dopo aver fallito il brindisi si scambiarono un sorriso, tra il complice e di una gaffe, per poi bere.

Giunta alla cima sporca e fradicia la donna si sistemava per evitare un’umile figura davanti ai cavalieri. Affamata e assonnata poteva finalmente gioire, nella speranza di un bel bagno con cui rilassarsi. Nella sua incredula resistenza aveva scalato quell’astio percorso tutta intera ed ora, avvicinandosi alla porta, si apprestava ad aprirla.

Allungò la mano per afferrare la maniglia, ritraendola d’improvviso, arrivò solo a sfiorarla prima di ricordarsi come presentarsi. Dopo tutta la strada fatta non poteva permettersi di entrare in quella maniera, senza nemmeno l’accortezza di bussare per provare l’attenzione dei soldati.

La baraonda nella taverna continuava assumendo toni sempre più caotici e grezzi. Pierfo, il migliore spadaccino, tornò al tavolo e mollò uno scappellotto alla nuca di Gignu, che sconvolto sentiva il dolore senza accorgersi della provenienza. Con sguardo da seduttore Pierfo lanciava sorrisi ebeti al commilitone, fino a dichiarare “Gignu, con quella pelle morbida, fossi femmina, ti scoperei tutta la notte”.

Al che Gignu rispose: “Ma che ti prende, risparmiati quei sorrisi, o ti mollo…” singhiozzo “o ti mollo, un cazzot…”

“Cosa molli tu, se solo ti ribe, rible, rebbelassi, io… ti sfilaccerei con la spada. Ma tranquillo, sei brutto come i porci che abbiamo mangiato. Non ti toccherò.”

“Sei, sei disgustoso.”

“Dici… vuoi sapere cosa ti farei, anzi cosa farei, se si presentasse una bella, ma che dico, anche una stracciona qui?!”

“Voglio, no non voglio… anzi voglio sentire.”

“La stenderei sul tavolo sbattendomela mentre la prendo a ceffoni, poi…”

“Se una donna riesce ad arrivare qui, non credo sarai l’unico…” si aggiunse Benemo con la testa appiccicata al tavolo e la voce sonnecchiante “tutti la vorranno, si sfogheranno su quella finché non l’avranno uccisa per troppo… ronf ronf”.

“Gli altri dovranno tacere, se vorranno divertirsi dovranno aspettare che io finisca…” riprese Pierfo iniziando un’immorale elenco.

Intanto un lieve battito proveniva dalla porta senza richiamare interesse. Ignorando che dietro questa, una ragazza era sul punto di indietreggiare, o quasi.

Spalancando la porta cominciò ad entrare la pioggia, che nel freddo presentava la tetra figura coperta di nero. Ci volle un po’ affinché gli uomini si accorsero di lei. Avrebbero attribuito quella visione alla sbronza, se non fosse che tutti le puntarono gli occhi sbigottiti.

Increduli di come la giornata poteva concludersi.

Nemmeno il tempo di scostare il cappuccio, mostrando il volto, e metà di questi, alticci, erano già balzati dalle sedie pronti ad avventarsi. Concorrevano tutti nella priorità di accaparrarsi la preda, con la freddezza di chi pur non volendola vedere in mani di altri, attende l’opportunità di negargli la fuga.

Il desiderio si faceva incessante e alzando le braccia la ragazza estrasse una coppia di canne mozze in pietra, deludendo le aspettative di coloro che ne avevano esultato la venuta.

Dalle armi color lavanda uscirono due compatti globi blu scuro che esplodendo sparpagliarono in tutta la sala sfere più grandi, in cui si riversavano frementi flussi elettrici di un blu chiaro. Gli uomini non ricevettero altro che il tempo di un sospiro, prima di venire folgorati uno ad uno dalle concentrazioni elettriche, che libere di diffondersi fulminavano carne ed ossa dei soldati.

Per loro non ci fu il tempo di vedere la boccetta ai piedi di lei, o il volto che tanto bramavano. Ora, con un aspetto più colorito che mai, la giovane strega si apprestava a restituire il dolore che le avevano provocato portandole via i suoi cari. Quel faccino roseo privo di imperfezione, esibiva uno sguardo deciso, capace di intimidire anche i più dissennati. Tutto il vigore e la rabbia serbata avevano lasciato la boccetta, per tornare nel fisico e nella mente della strega, grazie alla quale, senza esitazione, scatenava la sua vendetta.

Arrostita la maggioranza, i restanti furono presi di mira dalle pistole verde acquamarina da cui, senza risparmiarsi, scagliò saette gialle verdi contro i superstiti, sprizzanti sangue dalle ferite. Lavandosi nel sangue dava finalmente pace alla sua ira.

Dando un’occhiata prima di abbandonare il locale vide emergere da dietro il bancone il comandante Anselmo, che nel suo tono sfrontato disse celando il fiatone “Complimenti, ci sei riuscita a dare il peggio di te… ma vedi, dietro il bancone ho un, rifletti-incantesimo, non puoi farmi nulla. E se ti avvicini, la mia spada ti prenderà…”.

La strega fece un passo avanti, e ne seguì un altro, se quanto diceva l’uomo era vero aveva bisogno di un colpo ravvicinato per eliminarlo. Anselmo sapeva di non aver possibilità contro di lei, ma nella sua condizione, non gli andava di lasciarle quella facile vittoria. Benché nascondeva uno scudo in pietra runica la sua risorsa era un’altra.

Nel magazzino sottostante avevano disposto l’esplosivo necessario ad abbattere il santuario che duramente avevano conquistato, quel luogo rappresentava un’importante fucina per il rifornimento delle armi magiche. Ormai la missione era fallita, ma Anselmo nella sua dedizione era pronto a saltare in aria con tutta la locanda, pur di eliminare la strega.

Aspettava solo l’istante adatto all’innesco.

“Vattene, via strega! Le tue pistole sono inutili contro la mia spada…”

La strega fece un altro passo avanti per poi esclamare “Non mentire, so che ne hai otto!” per poi scattare indietro sui talloni.

“Cosa, non ti sento!” urlò Anselmo,

“So che ti ho conficcato otto colpi, non so quale artefatto le ritardi ma, le mie saette ti hanno preso.” Nella disperazione il comandante le gettò contro un mazzetto di coltelli che la strega evitò agilmente. Continuava a fissarlo mentre si allontanava, più lei diventava piccola più la disperazione aumentava, crescendo come le fiamme della sua rabbia. Anselmo non fece in tempo a sfuriarsi sul bancone che si vide le otto saette spuntargli sul corpo.