AMOK
Di Riccardo Zappalà
Folle di gioia per avercela fatta, non contenne il gaudio: cacò in bocca al figlio ghignando tra lacrime involontariamente coatte e singulti palpitanti più d’ira che di dolore, accovacciata sulle ginocchia con la terra fetida d’acqua, sangue e piscio che le stringeva le caviglie impossibilitandole movimenti veloci.
Non era un problema immediato. «Non occorrerà che combatta a breve», pensò infatti.
«Sono in tempo.»
Le parve d’udire la cantilena che ripeteva, saltando la corda, con le amichette da bambina; il testo era ancora intollerabile, però adesso suonava quasi divertente al suo orecchio.
Era il richiamo.
Essendosi pulita con la poca acqua meno sporca che trovò in una grossa buca semicoperta da un macigno informe, asciugò il culo con la chioma del folto scalpo appena scuoiato e che poi, zuppo di merda, lanciò, sia schifata che con scherno, sopra un ramo.
«Ora sì che avrebbe fatto al caso mio un po’ di neve…»
Malgrado ciò, s’accontentò dell’unico pugno di muschio fresco rimasto in zona per profumarsi.
Salutò con spregio la testa del discepolo di tutta la vita penzolante tra le propaggini secche, senonché questa cadde nella mota, rimanendo in piedi solenne, troncando seccamente l’ilarità di lei.
Per un attimo intimorita, riordinò i pensieri e l’uniforme, precedentemente scarlatta ora solo a chiazze, velocemente.
Nonostante una delle spille cruciformi, decorazione onoraria e di riconoscimento inestimabile, le scivolò dalla spalla giù nel limo, nell’euforia non se ne avvide, né avrebbe avuto motivo di preoccuparsene mai, visto quello che avrebbe recato con sé in cambio.
Definitivamente in piedi, tornò a sorridere e calciò seccamente il moncherino che le imbrattava gli stivali copiosamente e avvicinò la borsa di cuoio – che il figlio aveva nascosto in cima all’unica roccia asciutta all’esterno della Grande Grotta – tirandola per un lembo.
L’aprì, rallentando i movimenti, preda dell’enorme timore reverenziale che l’attanagliava.
Trasse fuori un verboso e pesante mantello di cotone marrone fegato che, srotolando, tonfò cupo nella melma.
Questo, silente, parlava.
In una tasca interna, cucita sotto il cappuccio, c’era il sigillo sano, limpido e luminescente.
«Sì! Li ho trovati!», si compiacque assaporando a denti stretti l’inestimabile ed eterno momento.
Sospirò convulsamente: le espressioni deformarono il viso che ridendo sempre più sguaiatamente trasfigurava.
Morse gravemente la lingua, ma non se n’avvide, era preda dell’isteria e del piacere.
Quattro piccoli pipistrelli dal pelo lungo cominciarono a volarle attorno rapidi, usciti da un anfratto che le stava alle spalle come attirati da un impercettibile segnale.
Anche le ginestre secche erano mute testimoni di quanto avveniva.
Urlando di gioia, avvolse i preziosi manufatti nella pelle scura del corpetto che aveva tolto e, con le dita, svuotò con furia parte dello stomaco squarciato dell’obeso soldato monocolo che, ormai esangue, sostava reclinato sulle radici ai piedi del tronco dell’albero spia più grande.
Dunque, introdusse gli oggetti occulti al posto delle interiora che aveva estratto e, lanciate via, esse non avevano fatto in tempo a trovare appoggio che erano scomparse, inghiottite da quel luogo infame.
Lo ricompose finché ritenne poco probabile che si potesse notare l’arcano custodito all’interno. «Ammesso che esista qualcuno che abbia il coraggio di venire qui», rifletté.
Per quanto improbabile, non voleva rischiare. Comunque le serviva solo qualche ora. Sarebbe tornata a prendere quei tesori con una scorta; ora non sarebbe stato sicuro, per lei, trasportarli per quegli antri tetri e maledetti.
Dovette voltarsi un’ultima volta per memorizzare i tre cadaveri che, baciati dall’ultimo raggio di luna filtrante da un interstizio della conca sotterranea, affrescava per intero quel quadro di terra in un esteso taglio luminoso dove i corpi, uno quasi seduto recante il terribile segreto, gli altri deformi, inermi e graveolenti, giacevano.
Non si distinguevano più gli escrementi dal fango ammorbidito dal sangue quando il corpo del suo “nemico” cedeva risucchiato negli oscuri meandri senza tempo delle sabbie ombrose.
Un merlo zirlava torvo da un brullo ramo nero con le sclere che, senza tregua, riflettevano in un filo di luce l’orrore attorno.
Non un alito di vento smuoveva l’arida e l’impietosa landa, lasciando che l’irrespirabile tanfo accompagnasse la corruzione della scena.
Olympia sputò per terra, fissando con sdegno, soddisfazione e attesa che gli occhi sbarrati di chi l’aveva sfidata sprofondassero.
Dopo, mosse per andarsene.
Frattanto che fradicia fin nelle ossa si apriva faticosamente la strada verso il cavallo usando l’ascia scheggiata come una pala da campo per garantirsi i passi, la pioggia cessò.
Il lampo fece giorno per un infinito istante senza rumori mentre l’immane lama di Amok chiuse il soave e fatidico palcoscenico tagliandole, di netto, la testa.
Al roboante fracasso del tuono, seguirono il buio e il silenzio.
Infine, il diluvio.
Arrivò così il primo giorno della seconda Era e, tutt’intorno, mellifluamente danzarono Rune Celesti.