IL LEGAME

Racconto in concorso

IL LEGAME

Di Francesca Palano

Fuori dalla scuola, la pioggia cantava sulle foglie del banano e la palma del viaggiatore ondeggiava come una coda di pavone. Oltre, sui fianchi delle colline, i verdi di giada e smeraldo della giungla sfumavano in un grigio ardesia fino a dissolversi tra le nubi.

«La scelta che farete domani determinerà il vostro futuro» disse la Maestra Jarrah. «Il vostro albero vi parlerà, ma pochi di voi sentiranno il suo messaggio e ancora meno lo capiranno.»

Jarrah non aggiunse altro. Nessuno diceva mai esplicitamente cosa avvenisse durante il legame e fare domande in proposito era giudicato inappropriato quanto curiosare fra le lenzuola di una coppia.

La Maestra ci congedò.

«Andrà bene, vedrai» mi disse Amaranto.

«E se invece uno di noi non riuscisse?»

«Impossibile, diventeremo Maestri della Foresta e niente ci separerà.»

Corse via leggero come un soffione nel vento. Il mio cuore invece era pesante legno d’ebano. L’indomani saremmo diventati adulti e non ci saremmo più chiamati Amaranto e Tarassaco. Eravamo come fratelli, ma tante amicizie si sfaldavano dopo la Cerimonia del Legame e non era detto che noi avremmo fatto eccezione.

Per l’ultima volta abbracciai la classe con lo sguardo. Jarrah mi lasciò il tempo che mi serviva. Non aveva mai fretta, come la giungla. Io trovavo che le assomigliasse. Aveva il suo profumo, occhi verdi clorofilla e lunghissimi capelli, opulenti come una cascata di rampicanti.

Una volta a casa, cercai ispirazione nella Stanza delle Glorie, era lì che tenevamo i dischi di legno dorato della nostra famiglia. Appartenevano a sette antenati. Quando morivamo, il legame con il nostro albero si spezzava, ma alcuni di noi avevano una vita così degna che il loro l’albero periva assieme a loro e ogni anello di accrescimento formatosi durante il legame si colorava d’oro. Tutti sognavano di dare un simile lustro alla famiglia. Io non ero da meno.

«Nessun frutto precede il fiore» disse mia madre entrando nella stanza. «Prima trova il tuo albero, poi dedicherai la tua vita a onorare il vostro legame.»

«E se fallissi la prova? Se scegliessi male?»

«Allora saranno i Maestri a decidere quale ruolo ricoprirai nella comunità e tu l’accetterai di buon grado, come si conviene.»

Sollevai lo sguardo sul suo volto severo. Non era la risposta che cercavo, conoscevo le conseguenze di una scelta fallace, quello in cui speravo era un po’ di conforto ma, come mio padre, mia madre era una guerriera e in lei c’era poco spazio per la tenerezza.

«Più di ogni cosa, voglio diventare Maestro della foresta» insistei.

«Non sempre i nostri desideri corrispondono al bene del villaggio» mi ammonì.

L’allarme dei corni ci colse di sorpresa. Mia madre corse alla stanza delle armi e mio padre arrivò subito dopo. Indossarono corazza e schinieri, presero le spade e corsero ai margini della Foresta Primigenia.

Tamburi di guerra risuonarono nella giungla. Sulla collina ad ovest le chiome degli alberi oscillarono rabbiose, stormi di uccelli presero il volo lanciandosi richiami spaventati.

Mi domandai che cosa cercassero questa volta gli avventurieri che ci stavano attaccando. Un frutto che dava vita eterna? Un albero dai pomi dorati? Erano decine le stupide leggende che li spingevano a inoltrarsi nella nostra giungla. Quello che non cambiava mai era la loro ferocia.

Ma gli uomini che sbucarono dal folto non erano avventurieri, erano esuli del nostro popolo. Ne avevo sentito parlare dalle genti dei villaggi limitrofi. Arrivavano come foglie spinte da un vento di tempesta, rubavano un po’ di cibo, qualche oggetto utile e sparivano nel folto della giungla.

Mi nascosi in una delle camere più interne della casa, dentro un armadio, mentre i loro tamburi battevano, sempre più violenti.

Qualcuno sfondò la porta di ingresso e attraversò le stanze rovesciando i mobili. Entrò nella camera in cui mi ero nascosto e lì si placò. Per un po’ restò fermo, come se stesse annusando l’aria. Poi sentii i suoi passi scricchiolare sul legno finché non furono attutiti dal tappeto. Stava venendo verso di me.

Urlai quando l’uomo spalancò l’armadio. Il suo volto era nascosto da un teschio di tigre, ma dietro potevo vedere i suoi occhi feroci dipinti di nero. Se ne andò lasciandomi inebetito e solo con la mia codardia.

Dopo un po’ il battito dei tamburi si affievolì fino a tacere. Solo allora uscii allo scoperto.

La mia gente si muoveva smarrita sotto la pioggia battente, qualcuno piangeva sui cadaveri sprofondati nel fango. Questa volta gli esuli erano venuti per le donne. Avevano preso solo le giovani, ventri adatti a portare i loro figli.

Il giorno seguente ci raccogliemmo sul confine della Foresta Primigenia assieme alle genti degli altri villaggi. Ogni ragazzo e ragazza che avrebbe affrontato la Cerimonia del Legame era accompagnato dalla famiglia, o da quello che ne restava. Io ero stato fortunato, i miei genitori erano tornati a casa incolumi. Amaranto, invece, aveva perso sua sorella Kauri e lui sapeva che non l’avrebbe più rivista. Nessuno sarebbe andata a cercarla. La Foresta Primigenia esigeva totale dedizione e la nostra legge stabiliva che ci lasciava la valle non poteva farvi ritorno.

Cercai invano lo sguardo del mio amico. Avrei voluto andare da lui, tentare di consolarlo, ma non mi era permesso rivolgergli la parola prima di aver completato il rito.

«Alcuni di voi sugellano il legame in un giorno difficile» disse Maestra Jarrah. «Che il vostro dolore e la vostra rabbia non vi distolgano da una scelta giusta. Ogni albero è parte della foresta, è la foresta. I più forti sostengono i più deboli. Se un albero viene attaccato esso avvisa i vicini del pericolo. Solo, un albero perisce più facilmente.»

Ci avviammo nel folto della foresta. Ne fui subito ammaliato. Vidi piante che avevo sognato per anni sfogliando i tomi dei maestri: il pernambuco e il sorbo, la dracena e il faggio, la rosa e il fiore del pavone. La Foresta Primigenia conteneva ogni pianta esistente sulla terra, era questa la sua miracolosa ricchezza, non qualche frutto magico o una radice fatata.

Vagai per ore imbevuto di meraviglia. Solo ai Maestri era concesso muoversi liberamente nella foresta e più mi addentravo, più sentivo che era a essa che mi volevo votare.

La mattina lasciò il passo al pomeriggio e quindi alla sera. Raccolsi un mango e lo gustai tra le belle di notte dischiusesi alla notte.

Amaranto mi passò accanto senza notarmi. Aveva il passo deciso e lo sguardo fisso sulla meta. Non mi era permesso rivolgergli la parola, così mi limitai a osservare. Quando capii cosa stava per fare dovetti impormi di tacere.

Poggiò la mano sul tronco spinoso di un hura e l’albero sugellò il suo legame liberando a terra tutti i suoi frutti che esplosero in un boato scagliando i semi lontano. Non aveva scelto un nome da Maestro della Foresta, ma da guerriero.

Lo osservai sparire verso sud e solo allora ripresi il cammino sentendomi di colpo sfinito e sconfortato. L’incanto si era spezzato. La sicurezza di Hura mi aveva messo di fronte alla realtà. Era tardi e ancora non avevo capito a cosa legarmi. Non potevo scegliere un albero a casaccio, sarebbe stato grave quanto non sceglierne alcuno. L’esilio era la punizione per tanta superficialità.

Fu allora che lo vidi. Snello, dal tronco cilindrico e la corteccia liscia e chiara. Un ailanto. Non gli avevo mai dedicato alcun pensiero, eppure mi diressi da lui senza esitazione, rispondendo al suo richiamo. Quando lo toccai non riuscii più a distinguere me stesso da lui. Respirai attraverso le sue foglie e sentii la linfa scorrere nel mio corpo. Mi diramai nella profondità della terra. Dolce, salato, amaro, i sali minerali picchiettarono sulla mia lingua come una pioggia estiva. Poi nel terreno si accese un reticolo di luce opalescente che correva nel sottosuolo da albero ad albero, propagandosi in tutta la foresta. Solo in quel momento capii appieno le parole di Jarrah. Unendosi alla foresta, l’ailanto diveniva la foresta stessa. Quando la luce si spense mi sentii di colpo solo e impaziente di tornare tra la mia gente.

Fui l’ultimo a rientrare.

All’alba i Maestri si riunirono per ascoltarci.

Hura parlò prima di me.

«Io sono Hura, fatto per combattere» disse ritto e arcigno. «Intingete la mia linfa velenosa nei dardi che scagliate contro il nemico. Il mio legno non può essere domato. A chi cercherà di lavorarlo o bruciarlo irriterò occhi e gola. Avvelenerò chi mangerà i miei semi.»

«Hai scelto un albero ostile, furibondo e solitario» disse Maestra Jarrah. «Nessun guerriero di questa comunità può esserlo.»

«Lo so.» disse Hura. «Per questo l’ho scelto. Andrò via e cercherò mai sorella.»

«Non potrai tornare» disse Jarrah.

«So anche questo.»

Fu come vedere la giungla marcire in un istante. Il mio migliore amico aveva scelto l’esilio. A malapena sentii le parole degli altri ragazzi e quando venne il mio turno dovettero chiamarmi due volte.

Frastornato, presi la parola. «Io sono Ailanto.» Parlai con voce titubante, senza sapere come proseguire. La mia mente era un tronco cavo. Quale qualità dell’ailanto avrei potuto offrire alla comunità per essere accolto tra i Maestri della Foresta? Non lo sapevo e più prolungavo il mio silenzio più il mio destino diventava incerto. Lo leggevo sul volto sgomento dei miei genitori. Passai in rassegna gli sguardi ansiosi dei presenti. Jarrah sola mi sorrideva. Lei aveva capito prima di tutti, prima ancora di me. D’un tratto tutti i miei dubbi si dissiparono e la mia lingua si sciolse. «Non sono un albero imponente, i miei fiori sono piccoli e emanano un cattivo odore. Non piaccio. Però sono tenace, cresco nei terreni incolti e aridi, prospero dove tanti altri periscono. Tagliatemi, bruciatemi, avvelenatemi e io continuerò a generare polloni.» Guardai la mia gente, la mia foresta. Per quanto mi fossi spinto lontano, niente avrebbe spezzato il mio legame con loro. Mi voltai verso Hura. «Un albero solo perisce più facilmente, ma un albero che condivide non è solo, la foresta è con lui. Per questo verrò con te.»