LA FESTA DEI PENSIERI LEGGERI

Racconto in concorso

LA FESTA DEI PENSIERI LEGGERI

Di Francesca Palano

I bivi sono nodi pericolosi, soprattutto al buio. Nascondono agguati, fanno smarrire la strada ed è lì che creature maligne tendono i loro tranelli. Ecco perché è frequente trovarvi edicole votate agli dei e ceri accesi per dissipare le ombre. In città, accenderli spetta ai sacerdoti, fuori, il viaggiatore pio dona una candela ai crocicchi e l’accende, se il tramonto è prossimo.

Il bivio dei Tre Passi si trova in mezzo a un bosco. Lo toccano tre strade ben tracciate, sfiorate da felci che lì crescono rigogliose. Il piccolo dio dei crocicchi dipinto sull’edicola è ormai una sagoma sbiadita color ruggine, fumo e sabbia. Gli strati di cera accumulatisi alla base nascondono il disegno di un cane, di cui restano visibili solo le orecchie rossicce e il muso di pelo scuro. 

La ragazzina offre un piccolo cero profumato. Suo padre storce il naso.

«La prossima volta, lascia che siano i ricchi a sperperare denaro in cera d’api, da noi gli dei accettano volentieri il sego» le dice.

In ginocchio, a mani giunte, lei chiede la stessa grazia implorata al mattino davanti all’altarino di casa.

Un abbaiare acuto e strozzato precede un agitato fruscio di felci. Una volpe spunta sulla strada e sbarra loro il cammino. Non è una volpe qualsiasi: è una crociata, dal pelo in parte rosso come foglie di vite e nero come terra bruciata. Non esistono volpi così da quelle parti.

La ragazzina guarda l’edicola con più attenzione e libera la base dalla cera. Non è il piccolo dio, quello dipinto, ma il dio Igario, colui che al piccolo dio ha dato mandato di proteggere i crocicchi. Né è un cane quello ai suoi piedi, ma una volpe crociata di cui al dio piace prendere talvolta sembianza.

«Torniamo a casa» dice la ragazzina al padre. «Il dio ci sta ammonendo dall’andare in città.» È turbata. Si sa che Igario ha modi tutti suoi di esaudire le preghiere.

«Non essere sciocca» risponde il padre. «Perché mai un dio dovrebbe curarsi se noi partecipiamo o meno alla Festa dei pensieri leggeri?»

La volpe lascia la strada e scompare tra le felci.

Come da tradizione, nella Festa dei pensieri leggeri, in molti si sono arrampicati sugli alberi della città per scrivere i loro Desideri sulle foglie. Lì rimarranno fino all’autunno, allora il suono delle chiome scosse dal vento cambierà e i desideri saranno sussurrati fino alle orecchie degli dei.   

Il padre dà alla ragazzina mezza sovrana d’argento lucido.

«Spendili come più ti aggrada.» le dice. «Ho delle cose da fare. Dopo pranziamo assieme a L’oca e il Gallo e poi ti prometto che vedremo assieme gli acrobati e il teatro di marionette.»

L’uomo la lascia senza il tempo di una protesta. La ragazzina sa che un dono così ricco, che venga speso o meno, intende comprare la sua indulgenza. Così va al santuario dei desideri leggeri. Una foglia è un supporto troppo caduco per le sue preghiere disperate. Ha bisogno che siano robuste come legno.

Al santuario, la ragazzina dona la sua mezza sovrana. Un sacerdote dei desideri sceglie per lei una tavoletta di giovane legno chiaro, intinge un pennello di lepre nell’inchiostro nero e scrive il suo desiderio con le giuste formule.

Gli alberi scolpiti nel legno levigato sono disposti in filari ordinati. Dai loro rami pendono centinaia di tavolette, alcune nuove, altre vecchie di decenni. La ragazzina appende la sua su un ramo basso. Spera che un dio passi presto di lì e legga la sua preghiera. Ha tanta concorrenza. Alcuni Desideri sono piccole opere d’arte dipinte con maestria dai sacerdoti. Tavolette così sono costose, ma attirano meglio l’attenzione ed è per questo che, chi può, fa volentieri donazioni generose.

«Davvero credi che gli dei si prendano il disturbo di venire qui a leggere tutte queste preghiere?»

La ragazzina non è abituata a parole così irriverenti verso gli dei e fissa il giovane signore colma di muta indignazione. Di incarnato pallido come il pietrisco di un torrente in secca, ha ricami d’oro sulle sue sete, uno zaffiro squadrato al dito e una lunga piuma dello stesso colore sul cappello.

«E se anche leggessero» aggiunge lui, mentre con il naso all’insù curiosa tra le tavolette «chi ti dice che esaudirebbero le preghiere così come le intende il supplicante?».

«Nessuno di noi conosce i propositi di un dio.»

Lui scoppia a ridere e le fa cenno di andarsene, come fosse una sua serva. La ragazzina sgambetta via sapendo che i signori fanno fatica a distinguere ciò che è loro da ciò che non lo è, né amano che gli si faccia notare l’errore.

A L’oca e il Gallo suo padre sta già giocando a carte. Tre volte, oggi, la ragazzina ha pregato per essere liberata da questo flagello. Per la prima volta dopo anni, il raccolto è andato bene e l’hanno venduto a un buon prezzo. C’è di che pagare gli stagionali per la raccolta delle arance, per comprare un gallo e qualche gallina e magari una capretta da cui ricavare latte e formaggio. Ma ora tutto il denaro guadagnato è sul tavolo da gioco.

«Papà» dice la ragazzina «pranza con me».

«Stammi vicino, sarai il mio portafortuna» dice lui e per entrambi ordina un panino tiepido ripieno di milza, più una caraffa di giovane vino biondo da condividere con i giocatori.

La ragazzina resta impietrita ogni volta che il padre sbaglia a calare o non si chiama fuori dal gioco quando dovrebbe. Ma forse oggi gli dei l’hanno ascoltata. Tra vincite e perdite il loro denaro resta pressappoco lo stesso.

«Papà» tenta di nuovo, quando molti giocatori lasciano il tavolo per godersi quel che resta della festa «avevi promesso che avremmo visto gli acrobati e lo spettacolo di marionette». Le sue parole hanno più effetto sugli altri due giocatori rimasti al tavolo che sul padre. In loro la ragazzina legge un poco di pena.

«Io tanto devo andare» dice uno, stiracchiando le membra e l’altro lo imita.

Il padre allora annuisce, toglie il denaro dal tavolo, rende all’oste il mazzo di carte e, come da regola, gli paga la dovuta percentuale sulle giocate.

In quel momento la porta della locanda si apre ed entra il giovane signore che la ragazzina ha incontrato al tempio. Lui si acciglia nel vedere che il tavolo da gioco è vuoto.

«C’è qualcuno che ha voglia di una mano?» dice.

Il padre squadra i ricami d’oro sulla bella seta che il giovane indossa, lo zaffiro splendente e la lunga piuma.

«Gioco io» dice.

«Ma noi dobbiamo andare» protesta la ragazzina.

«Un’ultima mano.»

Il giovane estrae dal borsello un suo mazzo. «Se non vi spiace.»

«Potrebbe essere truccato» dice la ragazzina.

Lui sorride. «Perché non ci fai da mazziere, allora?»

Per un attimo, la ragazzina resta ammaliata dalla bellezza del mazzo, le figure – contadino, sacerdotessa e cavaliere – e i semi – rosa, acanto, trifoglio e ghianda – sono disegnati con maestria e dovizia di particolari.

Il padre vince molte mani e il giovane perde il suo denaro con l’eleganza che si può permettere solo chi è ricco.

Le puntate si fanno più alte e il padre continua a vincere finché al giovane non resta più denaro.

Mentre raccoglie le carte, la ragazzina si chiede se sia un caso che sul loro retro sia disegnata una volpe. Il giovane sfila dal dito il suo anello di zaffiro e lo mette sul tavolo. Sul volto ha sempre lo stesso sorriso.

«Andiamo» dice la ragazzina.

«Un’altra mano» dice il padre.

La ragazzina ha paura. Protesta che gli dei puniscono l’avidità. Ma il padre non l’ascolta. Ride di lei. Il giovane continua a sorridere.

La piccola fortuna accumulata dal padre sfuma mano dopo mano. Quando il padre ha sul tavolo la stessa cifra con cui è arrivato in città, la ragazzina rifiuta di dare ancora le carte, chiede di tornare a casa, ma l’uomo non l’ascolta.

Mano dopo mano, diventano sempre più poveri. La ragazzina supplica e piange, ma ancora il padre non l’ascolta.

«Un’altra mano» dice, quando è lui a non avere più niente sul tavolo.

«Non avete più denaro» risponde il giovane signore.

«Ho un aranceto. Presto darà buon raccolto.»

«E sia.»

Intanto è calata la sera, l’oste ha acceso le candele, la locanda si riempie di avventori che chiedono la cena, un violinista suona una giga allegra.

La ragazzina si è fatta muta, mentre il padre perde il frutteto, poi la piccola vigna e il campo che ha dato il buon raccolto. Infine, la casa.

«Un’ultima mano» dice il padre.

«Non avete più niente» dice il giovane con il suo solito sorriso.

«Mia figlia. Potete avere lei.»

La ragazzina è troppo pallida per perdere altro colore.

«Sta bene. Se vincete avrete tutto, incluso il mio denaro e l’anello, ma se perdete vostra figlia sarà mia.» Poi si rivolge alla ragazzina. «Vuoi dare tu le carte?»

Lei trova appena la forza di scuotere la testa, lui solleva le spalle, poi la invita ad assistere al suo fianco, come se la sapesse già cosa sua.

Il giovane distribuisce le carte. La ragazzina le vede accumularsi sul tavolo faccia in giù. Per un attimo ha l’impressione che le volpi muovano coda e orecchie.

Il giovane signore solleva le carte e la ragazzina vede i semi e le figure cambiare nelle sue mani. Lui la guarda con il solito sorriso sul volto.

«Mi hai chiesto di essere liberata dal flagello del gioco di tuo padre e così io esaudisco la tua preghiera» sussurra.

La ragazzina fugge fuori dalla locanda, fuori dalla città. A perdifiato. Ormai è notte fonda, la strada si vede a malapena. Meno ancora quando raggiunge il bosco.

I bivi sono nodi pericolosi, soprattutto al buio. Al bivio dei Tre Passi le candele si accendono di colpo, non per dissipare le ombre, ma per meglio mostrarle. Il giovane uomo non indossa più il cappello dalla lunga piuma, ma sorride ancora.