GENESI

Racconto in concorso

GENESI

Di Martina Mazzanti

«Credo che siano pronti.»

«Allora possiamo procedere.»

Insieme, le due figure si sporsero a guardare.

La fanciulla era nata nella notte più fredda dell’anno, sopravvivendo nelle caverne assieme alla madre; forse era per questo che, a sedici anni, non temeva più nulla di quel mondo.

Nulla, a parte di sparire nel buio.

Quando gli animali della foresta avevano preso a svanire, si era diffusa una leggenda tra il suo popolo: che il buio strisciasse sotto le fronde degli alberi, attendendo che una preda vi passasse per divorarla. Mangiando sarebbe diventato sempre più grosso, così da potersi levare a sfidare la luce di fuoco nel cielo. Un giorno, dicevano, avrebbe divorato quella luce e per tutti loro sarebbe stata la fine.

La fanciulla capì che il momento era arrivato quando le torce iniziarono a perdere la propria luce. Anche gli altri del suo popolo se ne accorsero, così tutti uscirono a raccogliersi attorno al grande falò.

Le ombre strisciavano attorno a loro. La fanciulla non riuscì più a vedere gli alberi, e tremò, terrorizzata, ma quando un lembo di quell’oscurità si avvolse attorno alla madre si fece forza e, afferrato un legno dal falò, lo brandì contro l’oscurità.

L’ombra sembrò ritrarsi davanti a quel coraggio, come avrebbe fatto una bestia della foresta allarmata dalla luce. La sorpresa non durò però molto e l’ombra riprese a levarsi, abbracciando infine la sfera di fuoco nel cielo.

La fanciulla gridò alla sfera, guardandola fino a sentir gli occhi bruciare.

Poi il buio calò per tutti loro.

Un non calcolabile periodo di tempo dopo, dato che il tempo lì non esisteva, le due figure raddrizzarono il capo chinato per guardare.

«Come ha potuto finire tanto in fretta?» domandò la figura in bianco.

«Non possiamo pretendere che una ragazza magrolina vinca grazie a un legnetto che arde», rispose la figura in nero, «ma ha dimostrato il coraggio di un eroe. Con qualche miglioramento, direi di procedere da qui.»

La figura in bianco annuì.

Il cavaliere avanzò verso il centro della piazza. Di esitazioni non poteva averne, non quando così tante persone contavano su di lui.

«Sei il nostro eroe!» quella della folla era un’esclamazione sussurrata, che si ripeteva di bocca in bocca mentre passava.

Il suo avversario sembrava incurante di tutte quelle vite appese alla sua sconfitta; se ne stava immobile nel mezzo della piazza, del tutto simile a un cavaliere come lo era anche lui: l’armatura del suo avversario era stata però messa insieme con pezzi scombinati e arrugginiti.

«Non porterai altra morte nel nostro mondo, bestia immonda!», dichiarò il cavaliere, sguainando la spada.

L’avversario che aveva davanti non rispose con le parole, lo fece sollevando a sua volta l’arma. I due scattarono.

Il cavaliere sapeva che nessuno aveva mai visto il volto del suo avversario, ma quando durante la battaglia riuscì a fargli volare via l’elmo scoprì che non c’era proprio nessun volto da vedere.

L’armatura era piena di buio, un buio che pareva solido e che premeva contro la propria gabbia di ferro. Nella vaga rotondità che imitava una testa, si aprì un sogghigno rossastro, che cominciò ad allargarsi sempre di più.

A nulla servì cercare di ferire quell’oscurità con la spada. L’arma venne inglobata, così come il braccio del cavaliere, e poi il resto del suo corpo. La forma di buio divorò ogni persona nel regno, spegnandone le urla di terrore, e quando finì le persone divorò le case e la terra e, infine, il cielo stesso.

«Non ha funzionato», disse la figura in bianco. «La sua spada non poteva colpirlo.»

«Era solo il nostro secondo tentativo. Forse il potere della luce potrebbe aiutare il nostro eroe?» propose la figura in nero.

«Certo, sembra la soluzione giusta! Riproviamo.»

«Perché l’hai fatto?!» il mago si girò verso il responsabile di tutto quello, la voce rotta mentre stringeva i pugni così forte da farsi male.

La bestia, perché solo in quel modo si poteva definire, non si girò neppure a guardarlo. Se ne stava tranquilla, poggiata alla barriera di contenimento, dalla quale osservava fuori con un sorriso sul viso – nonostante il suo aspetto potesse ricordare quello di un essere umano, attraverso la sua pallida pelle si potevano vedere vene nere pulsare.

Furioso per la distruzione della propria terra, il mago sciolse l’incantesimo di contenimento. La luce venne assorbita dalla spada che portava, e che lui levò per calarla sulla bestia.

La lama venne afferrata dalle mani della creatura; la pelle pallida sfrigolò, ma la presa rimase salda. Le mani del mago, invece, tremarono.

Non ci fu bisogno di vedere come sarebbe finita. La fine, stavolta, avevano potuto percepirla.

Non si dettero per vinti. Provarono ancora e ancora, in quel loro tempo illimitato. L’eroe ogni volta da loro scelto ebbe archi fatti di fiamma, armature indistruttibili, spade sempre più affilate e piedi sempre più veloci.

Ma nulla di tutto quello funzionò.

«Questo è stato il peggiore di tutti!» sbottò la figura bianca, dopo un tentativo particolarmente insoddisfacente. Era apparso come sempre insieme alla figura nera, che però stavolta aveva un’espressione pensosa sul viso.

«Forse», disse lentamente la figura nera, «ci stiamo concentrando sulla cosa sbagliata.»

La figura bianca lo fissò: «Cosa intendi?»

«Abbiamo dato così tante armi al nostro eroe. Forse dovremmo iniziare a pensare all’altro…» la figura nera inclinò appena la testa, osservando quella bianca e, sempre con estrema lentezza, alzando una mano verso di lui. «Dopotutto, potremmo dare qualcosa anche a lui.»

Quando la figura bianca capì il suo gesto i suoi occhi si spalancarono. Arretrò appena nel vasto nulla.

«No, questo non puoi farlo. È troppo crudele», disse la figura bianca.

La figura nera sorrise.

Da quando era nato un suono l’aveva sempre seguito. Nonostante quel suono fosse con lui da sempre, continuava a sembrargli estraneo.

«Detesto i temporali», disse, mentre un tuono particolarmente potente faceva tremare la stanza.

Il giovane uomo davanti a lui tremò a sua volta.

«È tutto qui quello che hai da dirmi, dopo aver massacrato l’intero castello?» urlò l’uomo. «Non sei un umano. Sei una bestia!»,

«Sai che dovrò fare lo stesso a te», disse la “bestia” al giovane uomo, «sei l’ultimo ostacolo che mi manca. Poi avrò la strada libera».

«Libera per cosa?», non poté fare a meno di chiedere l’uomo.

«Divorare questo mondo, portandolo alla sua fine.»

Il giovane uomo sembrò troppo allibito dalla risposta per ribattere. In quel momento di stallo, la porta alla loro sinistra si aprì, e ne sgusciò fuori una testa di arruffati capelli neri.

«Roro?», la bambina dai capelli neri chiamò il fratello con l’affettuoso soprannome.

«Attenta Vit!», le gridò lui. «E tu, non osare muoverti!»

Ma la bestia si mosse e il giovane umano sollevò la spada, schiantandola contro quella pelle dura come ferro.

La bambina, Vit, non capiva quel che stava accadendo. Aveva solo sei anni, e tutto ciò che sapeva era che suo fratello e il suo adorato amico stavano lottando.

Fu quando vide l’amico cadere, e il fratello caricare il colpo di spada, che si mosse, scattando in avanti.

«Roro, no!!!»

Le sue piccole gambe furono abbastanza per arrivare dove voleva. Era sempre stata una bambina agile.

La bestia vide la punta della spada spuntare dalla schiena di Vit. Ci fu un suono orribile, un gorgoglio che parve riempire l’improvviso silenzio – dov’era finito il temporale? Dov’erano finiti i tuoni?

La bestia afferrò la bambina quando cadde all’indietro. Era leggera, per lui leggera come un uccellino. Come un cardellino. Ricordava l’entusiasmo di Vit quando gli aveva mostrato la prima volta che era riuscita a fare amicizia con uno di quei piccoli volatili, condividendo con lui le briciole dei biscotti.

Ricordava che aveva sempre amato correre, quella bambina. Da quando aveva smesso di gattonare aveva preso a caracollare ovunque gli fosse consentito, e sarebbe andata a esplorare anche oltre se avesse saputo come aprire le porte.

«Da grande vedrò tutto!», gli aveva detto una volta.

«Tutto cosa?»

«Il mondo!»

Ora i grandi occhi color nocciola della bambina lo fissavano.

«Stai bene, Horu?» domandò la bambina, con una voce flebile flebile.

Horu era il nome che la piccola gli aveva dato.

Il silenzio venne spezzato, i tuoni rombarono con tanta forza da scuoterlo. Erano assordanti, pulsavano nelle sue orecchie, nei suoi polsi, nel suo petto, sembrava volessero espandersi fino a lacerare le sue carni, in un dolore dilaniante.

«No… no… Vit? Vit?!», Horu la scosse, ma anche se gli occhi della bambina erano ancora aperti non ci fu risposta da lei. Non mi vede più, si rese conto Horu, non vedrà mai più nulla del mondo.

Il tuono ritmico che l’aveva sempre seguito continuò a rimbombare, scandendo il perpetuarsi della vita laddove invece quella di Vit era finita. Horu lasciò andare il corpo della bambina, portandosi le mani alle orecchie, premendo per non sentire – ma il suono continuava, e continuava, e continuava…

«Fallo smettere!», gridò. «Non lo sopporto! Fallo smettere! FALLO SMETTERE!».

C’era solo il giovane uomo davanti a lui, il viso rigato di lacrime. La sua spada si alzò di nuovo, e stavolta centrò il proprio bersaglio.

I tuoni cessarono.

«Ha funzionato!» la figura nera esultò. «Ha funzionato!»

Abbassò poi lo sguardo sul giovane singhiozzante, macchiato del sangue della sorella e della bestia, che nel riposo sembrava un qualunque umano addormentato. Le palpebre si erano chiuse sui suoi occhi d’oro, e non si sarebbero mai più risollevate.

«Un cuore. È bastato dare alla Bestia un cuore per far trionfare il nostro eroe!», la figura nera sorrise, spostando lo sguardo su quella in bianco, come sempre accanto a lui. La figura nera si chinò, e tese di nuovo la mano, sfiorando il punto scuro e vuoto inciso nella carne della figura bianca; con l’indice ne ricalcò i contorni, sfiorandogli il petto deturpato. La figura bianca non disse nulla, non ricambiò il suo sorriso, non si mosse affatto e continuò a guardarlo senza vederlo, gli occhi opachi e fissi.

«Alla fine ce l’abbiamo fatta, fratello mio!».