VIA DALL’ALTROVE

Racconto in concorso

VIA DALL’ALTROVE

Di Silvia Franchini

Quella casa nascondeva qualcosa di sinistro. Greta lo sentiva. Era l’assistente mal pagata di un gruppo pop locale e si occupava delle commissioni minori. Non avrebbe mai voluto che si trasferissero lì, il suo sesto senso non prometteva bene. Avevano preso in affitto la casa già arredata, in periferia, zona tranquilla, senza neppure effettuare un sopralluogo. In fondo, ai ragazzi occorreva solo una sistemazione temporanea. La sera dell’incidente la band suonava in un bar in centro Milano e lei si ritrovava a sbrigare le solite questioni nella villetta. Lei e qualche silenzioso domestico. Saranno state le undici e mezza. Greta aveva controllato l’orologio al polso pochi attimi prima che la situazione precipitasse. Era in salotto. Una stanza grande e ricoperta di mobili antichi alle pareti. Al centro, un filo quasi trasparente, come la seta di una ragnatela, sembrava pendere dal soffitto e passava per una scatolina marrone intarsiata, pareva di legno. Che strano lampadario, pensava Greta, la lampadina era sicuramente celata lì dentro. L’ ambiente si presentava infatti perfettamente illuminato. Frugava nelle carte sparse sul tavolino di mogano quando un movimento inaspettato, quasi furtivo, catturò la sua attenzione. Non poteva essere reale. Un gamberetto, vorace, ne afferrò uno più piccolo, all’ombra di una credenza. Greta non fece in tempo a porsi alcuna domanda. Il pavimento si trasformò in un mare senz’acqua. Una razza le passò accanto al piede per poi scomparire sotto una vetrinetta. Scorfani e gallinelle nuotavano sulle mattonelle di ceramica. Quelle creature provenivano da chissà dove e si rifugiavano sotto i mobili del salotto. Sembravano non notarla nemmeno. Greta, sopraffatta dal terrore e dall’incredulità, incapace di fuggire, afferrò con mani tremanti uno qualsiasi dei contratti della band, insieme alla prima penna che individuò abbandonata sul tavolino e semplicemente trascrisse quello che vedeva. Suo padre era un biologo marino. All’improvviso le mancò l’aria e poi il buio. Quando i cantanti rientrarono dal concerto, in tarda serata, trovarono uno scenario insolito, ma apparentemente privo di dettagli fantascientifici. L’assistente, giovane ed ancora inesperta, Greta Bramieri, era stesa a terra, fra mille fogli dei tanti contratti che avrebbe dovuto riordinare. Archiviarono il caso come infarto fulminante. Il tastierista notò di sfuggita uno strano elenco di pesci nel caos generale ma, confuso dal mix alcol ed eroina in circolo nel suo corpo, lo ritenne un delirio della mente e si trascinò a fatica fuori dalla stanza. Traslocarono il giorno seguente, dopo aver liquidato la famiglia della poveretta che rimase affranta, con una lapide su cui piangere quella prematura scomparsa. La cronaca fu riportata in un trafiletto breve e secondario del quotidiano del giorno dopo e finì presto appallottolata nei bidoni della spazzatura.

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Diletta non era mai stata a casa della famiglia Scalzi. Eugenia e Nicoletta erano due gemelle sue compagne di classe e l’avevano invitata quel mercoledì per studiare con loro. Frequentavano il quarto anno del Liceo Scientifico Vittorio Veneto. Mormorava la gente, la gente mormora sempre. Di certo si sapeva solo che in quella villetta su due piani con giardino a Crescenzago era morta l’assistente di un gruppo pop degli anni 80. Poi la cas era rimasta disabitata per anni fino all’arrivo degli Scalzi che l’avevano acquistata dai precedenti proprietari, che non si erano mai visti, perché la dimora era sempre stata affittata. Diletta, comunque, non si lasciava suggestionare facilmente. Da quando i genitori si erano separati, aveva imparato a prendere la vita com’era, costellata dai suoi, anche curiosi, dati di fatto. Arrivò verso le 15:30 grazie alle fortuite coincidenze di qualche autobus di linea. I genitori, timorosi e protettivi, avevano deciso di non regalarle il motore quando aveva compiuto quattordici anni, come invece era capitato alla maggior parte delle sue amiche. Suonò il campanello di quella che, all’esterno, appariva come una normalissima villetta ben curata. Eugenia e Nicoletta le fecero strada all’interno. Era eccessivamente affollata quella casa per essere un giorno infrasettimanale. La famiglia delle gemelle era riunita in salotto, i genitori, gli zii e qualche cuginetto in età scolare. Qualcosa di quello scenario non la convinceva ma, inizialmente, non avrebbe saputo spiegarsi cosa. La casa era stata ristrutturata con gusto, il mobilio era in stile shabby chic e le pareti erano di color carta da zucchero. Solo un elemento, nell’insieme, stonava. Un vecchio lampadario appeso al soffitto, costituito da una scatolina intagliata, forse di legno, ed un lunghissimo filo che le passava attraverso. No, forse non si trattava di un lampadario, non si vedevano le lampadine e poi scendeva dal soffitto senza risultare appeso a nulla, nessun rosone, nessun gancio. Che fosse un effetto ottico, Diletta non avrebbe saputo dirlo. Quei personaggi, seduti sui divani e sulle poltrone, l’accolsero giovialmente, eppure, guardandoli con attenzione, sfoggiavano sul volto dei sorrisi sinistri e di cera. Perfino le gemelle, che Diletta conosceva da quattro anni, lentamente iniziarono a trasfigurarsi. Erano due tipette alte e magre, con lunghi capelli lisci e castani, pelle diafana e sguardo spento. Ora, invece, avevano gli occhi stranamente grandi e le bocche aperte all’unisono su un sorriso eccessivamente accentuato, a tal punto che, Diletta l’avrebbe giurato, si sarebbero potuti contare i denti. L’imbarazzo gelato provato in quel momento le provocò la pelle d’oca sulle braccia, in qualche modo si sentiva in trappola. I suoi sospetti non tardarono a risultare fondati perché, ad un tratto, sentì qualcosa strusciare contro il suo piede e fu costretta ad abbassare lo sguardo. Non poté credere a ciò che stava vedendo, era un pesce, un pesce gigante sul pavimento, che scivolava dolcemente come se ci fosse dell’acqua. Nuotava. Diletta, guidata dal suo spirito critico, immaginò che la famiglia Scalzi possedesse un acquario e che, probabilmente, in qualche assurdo modo o per qualche motivo inspiegabile, il pesce fosse saltato fuori dall’habitat di vetro. Ma non fece in tempo a condividere i suoi pensieri poiché, rialzando lo sguardo, si trovò accerchiata. Eugenia e Nicoletta la bloccavano una sulla destra e l’altra sulla sinistra mentre, davanti a lei, i genitori delle ragazze erano sempre più vicini. Provò a urlare ma, dalla gola, uscì un suolo talmente flebile che non avrebbe allarmato neppure un cane. Nell’arco di pochi attimi, percepì le mani della signora Scalzi intorno al collo. Prima un solletico, quasi un fastidioso prurito, poi la stretta iniziò a farsi intensa. Diletta sentiva i battiti del cuore accelerare dentro le carotidi, fra le mani ruvide della donna. La stava strozzando. Se non avesse reagito nell’immediato, a breve, il respiro e le forze sarebbero mancate. Provò a respingere quelle mani assassine, ma erano troppo forti, come di marmo intorno al suo collo. Tentò, quindi, con le gambe. Iniziò a scalciare incessantemente, fino a quando colpì qualcosa. Per il dolore, la signora Scalzi allentò la presa quel salvifico secondo che permise a Diletta di divincolarsi e aprirsi una breccia tra quegli esseri disumani. Corse via, una corsa folle che parve infinita fino all’ingresso. Dietro di lei sentì scatenarsi l’inferno. La stavano inseguendo, ne era certa. Riuscì ad imboccare l’uscita e si scaraventò in strada, continuando a correre senza voltarsi mai. Sapeva che, se l’avesse fatto, non ci sarebbe stato più scampo, come nel mito di Euridice e Orfeo. Correva, correva, correva, al limite della sopportazione fisica, in mezzo alla strada, verso una destinazione ignota. Un clacson, a pochi centimetri da lei, la fece sobbalzare. Era un taxi. Diletta aveva pochi euro con sé ma, ora più che mai, l’unica alternativa era prenderlo. Si sbracciò con una foga ritrovata e l’autista rallentò per farla salire. Appena dentro l’abitacolo, Diletta si mise le mani al petto, come a voler trattenere il cuore che pareva uscirle. Passò qualche minuto prima che riuscisse a realizzare di aver lasciato lo zaino, con il portafoglio ed il cellulare, in quella maledetta casa. Probabilmente le era caduto durante la lotta. Ora, non solo non avrebbe potuto pagare il taxi, ma tutte le persone a lei care sarebbero state in pericolo; tutta la sua vita, infatti, era racchiusa in quel cellulare senza pin. Il panico si impossessò di lei, forse sarebbe potuta andare alla polizia, ma chi le avrebbe creduto? Pesci che nuotano sul pavimento, uomini e donne affette da chissà quale macabra influenza. Chiuse gli occhi sotto una fronte madida di sudore e disperazione.

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Quando li riaprì, era nel suo letto, fradicia sotto il piumone regalatole da nonna il Natale passato. Le formiche ai piedi e stanca, come dopo un sonno senza riposo. Solo allora, voltando il capo nella stanza in penombra, scorse sul comodino il cofanetto dvd di “Alien” e, più in là, “Ventimila leghe sotto i mari” di Jules Verne, romanzo per ragazzi della sorellina Giulia, che dormiva serena nel letto accanto. Le aveva raccontato entusiasta la trama la sera prima. Diletta, finalmente, si sentì sollevata. Sul comodino, il suo Samsung S21 vibrò per l’arrivo di un messaggio. Era Eugenia, la sua compagna di classe. “Pronta per il concerto? Vieni da me oggi, dopo la scuola. Ci saranno anche Nicoletta e Greta”.