L’articolo di oggi tratta un tema su cui vorremmo conoscere la vostra opinione, soprattutto quella degli/delle aspiranti scrittori/scrittrici ma, in generale, anche quella dei lettori perché si tratta di una questione che investe tutti gli attori del mondo editoriale, dagli autori ai fruitori.
Come vi avevo promesso nella recensione del libro di Vanni Santoni, “La scrittura non si insegna”, oggi vi racconto un caso editoriale d’eccezione: quello fra Raymond Carver e il suo editor Gordon Lish.
Intanto, un consiglio di lettura: questa storia è magistralmente raccontata in: “Forbici”, di Stéphane Michaka, di cui vi riporto la quarta di copertina, così entriamo subito in argomento:
«Mi chiamo Raymond. Sono uno scrittore. Insomma, mi piacerebbe diventarlo». A quindici anni, Raymond Carver decide che sarà Hemingway o nient’altro. E il racconto, con i suoi silenzi ostinati e i finali sul filo del rasoio, sarà il suo genere prediletto. Ha dei sogni e tutta la vita davanti per realizzarli. Siamo a Yakima, nel nord-ovest degli Stati Uniti. Un posto dimenticato da Dio. Raymond Carver, Maryann Burk-Carver, Gordon Lish e la poetessa Tess Gallagher che aspetta la sua ora in disparte… Forbici racconta la loro storia: in un’epoca che va dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, assistiamo alla realizzazione di due uomini in preda a una dipendenza reciproca, uno scrittore e il suo editor che taglia i suoi pezzi al punto da snaturarli. Stéphane Michaka si impossessa del mito e fa rivivere, al di là della rivalità tra uno scrittore e il suo editor, la passione amorosa che lega un uomo e una donna determinati a inventarsi un destino.
Quello di Michaka è un racconto romanzato, dove dialoghi ed episodi non vanno presi propriamente alla lettera. Resta però un bel documento, che dà un quadro generico della storia e che si impernia tutta intorno al punto su cui vorremmo sentire la vostra opinione: qual è la giusta misura d’intervento di un editor sul testo? Fino a che punto si può spingere? Leggendo questo articolo scoprirete insieme a noi che non sempre è facile rispondere a questa domanda.
In Italia, il racconto della querelle Carver-Lish è arrivato alle orecchie del grande pubblico nel 2009 quando Einaudi, nella collana Supercoralli, pubblica “Principianti”, ossia il manoscritto inedito e originale della seconda raccolta di racconti di Carver, uscita nel 1981 con il titolo “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”. Il testo originale è lungo quasi il doppio rispetto alla versione uscita negli anni ‘80. Cos’era successo con la prima pubblicazione?
Per capire appieno le dinamiche sociali ed economiche che si svilupparono tra Lish e Carver, e che condussero alla prima versione della raccolta di racconti, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo e capire dov’è iniziato tutto.
Raymond Carver nasce a Clatskanie, in Orgeon, nel 1938 da una famiglia umile (la madre era cameriera e il padre lavorava in una segheria). Appena diciassettenne, conosce Maryann Burk e due anni dopo la sposa, già incinta. Lui ha diciannove anni, lei diciassette. Dopo una breve esperienza di lavoro presso la segheria dove è impiegato il padre, Carver capisce di voler fare lo scrittore, quindi si iscrive all’università e, in seguito, a un corso di scrittura per corrispondenza. Grazie ai contatti che riesce a stabilire, entra nella scena intellettuale ed editoriale di Washington, pubblicando qualche racconto su riviste letterarie; è del 1967 il suo incontro con Gordon Lish, allora editor di Esquire.
Nel frattempo, a Carver è nato un secondo figlio e queste prime pubblicazioni si rivelano insufficienti per provvedere ai bisogni della famiglia. Tenta con diversi lavori, ma non dura mai più di qualche mese e spesso tira avanti con i sussidi di disoccupazione. Nel mondo editoriale collabora con qualche rivista, alcuni suoi racconti cominciano a essere inseriti in antologie e raccolte e, nel 1970, una vera casa editrice, la Kajal Press, pubblica la sua seconda raccolta di poesie.
Piano piano cresce la sua notorietà, grazie soprattutto alle riviste universitarie che pubblicano con discreta regolarità i suoi racconti. Anche Lish ne accetta uno e, nel 1971, pubblica su Esquire “I vicini”, con il titolo semplificato in “Vicini”. La prosa di Carver è profonda e avvolgente, indugia molto sull’aspetto umano e sull’introspezione psicologica dei suoi personaggi; è una prosa complessa e ricca di dettagli, tanto che i suoi racconti raggiungono sempre una certa lunghezza (qualcuno, se ha letto Carver, forse dissentirà, ma fidatevi e continuate a leggere). Carver comincia a ricevere numerosi incarichi accademici, comprese assegnazioni di corsi di scrittura in diverse università, e i suoi testi sono sempre più conosciuti e vincono anche qualche premio. Ma è proprio in questo periodo di ascesa che nella vita di Carver entra l’alcolismo. Costretto a dimettersi dagli incarichi universitari a causa delle pesanti conseguenze della sua dipendenza, che cominciarono a manifestarsi nel 1974, le condizioni economiche della famiglia, mai stabilizzatesi del tutto, ricominciano a essere precarie. Costretto a casa senza poter lavorare, Carver sprofonda ancora di più nell’alcolismo, con correlati episodi di violenza nei confronti della moglie e incrinando pesantemente l’equilibrio della coppia che non resiste a lungo. Tre anni dopo Raymond e Maryann si separano. Pochi mesi dopo la separazione, Carver conosce la poetessa Tess Gallagher, che sarebbe diventata la sua futura seconda moglie.
Eccoci quindi allo snodo della vicenda. L’introduzione era necessaria per collocare Carver nel corretto ambiente socio economico in cui si trovava all’epoca. Stiamo parlando di un alcolista, o ex tale, – nel 1977 dichiarò che aveva smesso di bere – in condizioni economiche non rosee, che anela di sfondare come scrittore, ma che ancora, nonostante molte soddisfazioni e svariati riconoscimenti, non ha, passatemi l’espressione, fatto il botto.
Arriviamo, dunque, al 1981. In quell’anno esce, presso Knopf di New York, la seconda raccolta di racconti di Carver, curata da Gordon Lish: What we talk about, when we talk about love (Di cosa parliamo quando parliamo d’amore); il manoscritto originale che Carver aveva mandato a Lish constava, però, più o meno del doppio delle pagine e si intitolava “Principianti”.
Per spiegarvi cosa fosse successo, cito dall’introduzione dell’edizione originale, pubblicata nel 2009 da Einaudi, che vi segnalavo a inizio articolo:
La mattina dell’8 luglio 1980 Raymond Carver scrisse una lettera angosciata e confusa all’amico ed editor Gordon Lish, che gli aveva appena mandato il manoscritto rivisto di una nuova raccolta di racconti: “Principianti”. Di alcuni di questi racconti Lish aveva tagliato il settanta per cento, riducendo nel complesso il libro della metà e cambiando molti titoli e finali. La raccolta ora si chiamava “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.
Carver implorava Lish di sospendere la pubblicazione del volume e ripristinare i passi tagliati: «Ti dico la verità, qui è in gioco il mio equilibrio mentale. Ora non vorrei fare il melodrammatico, ma davvero ho appena fatto ritorno dai morti per rimettermi a scrivere dei racconti. […] E adesso ho una gran paura, una paura da morire, lo sento, che se il libro fosse pubblicato nella sua attuale forma revisionata, non riuscirei più a scrivere un altro racconto, Dio non voglia…»
Ma Lish andò avanti per la sua strada. Carver era certamente spaventato dalla prospettiva della pubblicazione, ma altrettanto dall’idea di perdere la stima e l’affetto dell’editor che l’aveva scoperto e aiutato fin dall’inizio della sua carriera. Così si convinse ad accettare l’editing e la raccolta uscì nella forma che Lish le aveva dato, nell’aprile 1981.
A quasi trent’anni di distanza, oggi possiamo finalmente leggere la versione originale di quegli straordinari racconti. E scopriamo uno scrittore molto diverso da quello che conoscevamo. Dove Lish era intervenuto a interrompere una scena prima che raggiungesse la massima intensità, Carver l’aveva lasciata esplodere lentamente. Dove Lish sfoltiva i dialoghi o zittiva del tutto i personaggi, Carver aveva aspettato che arrivassero all’ultima parola. Sotto la forbice di Lish i protagonisti di Carver diventavano uomini e donne senza passato e senza sogni, colpevoli senza movente. Passato, sogni e moventi che Carver, però, aveva immaginato e raccontato.
Nel 1982 Carver scrisse a Lish che non avrebbe più accettato «l’amputazione e il trapianto» che aveva subito in passato. E la sua nuova raccolta, “Cattedrale”, fu salutata da critici e lettori come l’inizio di una nuova stagione in cui l’autore rinunciava agli eccessi del cosiddetto Minimalismo (un’etichetta che Carver non aveva mai amato).
Chi ha letto “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” conosce Carver come, appunto, un autore minimalista. Un autore dalla prosa secca, stringata, dai dialoghi essenziali. I suoi racconti sono famosi per il climax che viene castrato sul finale, sono racconti dai finali interrotti, direi mozzati. I personaggi sono sfaccettati nel loro silenzio o perfettamente definiti in pochissime, taglienti, battute. Ebbene ora sappiamo che quello non era Carver, bensì la scure di Lish, scrittore, oltre che editor, che forse aveva riscritto i racconti secondo il suo personale gusto, insomma, come li avrebbe scritti lui. Ma può un editor spingersi così oltre?
La logica, ma anche la deontologia professionale, farebbero propendere per il no, l’editor non può fare interventi così invasivi, pena lo snaturamento dell’autore che sta pubblicando. Eppure, la notorietà mondiale di Carver la dobbiamo proprio a “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”. Prima di allora era stato uno scrittore mediamente conosciuto nella scena nordamericana, chiamato a tenere lezioni e corsi di scrittura, ma non aveva realmente sfondato oltreoceano. Si può dire serenamente che è asceso agli onori della critica solo dopo quella raccolta così violentata da Lish. Comincia a vincere premi prestigiosi come il Mildred and Harold Strass Living, consistente in una borsa quinquennale rinnovabile di trentacinquemila dollari annui netti, cosa che gli permette di interrompere ogni attività retribuita (clausola richiesta anche per poter accedere al premio stesso) e dedicarsi completamente alla scrittura. Sia Anne Tyler che John Updike elogiano alcuni suoi lavori includendoli in antologie di migliori racconti americani del XX secolo e, nel 1984, la raccolta “Cattedrale” viene candidata al Premio Pulitzer.
Nel 1988 riceverà, tra le altre cose, una laurea ad honorem in lettere e l’ammissione alla prestigiosa American Academy and Institute of Arts and Letters.
Sono, insomma, anni di grande fama e soddisfazioni.
Ma come possiamo sapere se tutto questo successo sarebbe arrivato anche senza il rimaneggiamento così pesante di Lish su “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”?
Lish e Carver, oltre a essere legati da un rapporto di lavoro, erano anche molto amici e nel 1982, mentre sta preparando i racconti per “Cattedrale”, Carver scrive queste righe a Lish:
“[…] una cosa è sicura: i racconti di questa raccolta saranno più pieni di quelli dei libri precedenti. E questa, Cristo santo, è una cosa buona. Non sono lo stesso scrittore di prima. Però so che tra questi 14 o 15 racconti che ti darò ce ne sono alcuni che ti faranno arricciare il naso, che non coincideranno con l’idea che la gente si è fatta di come deve essere un racconto di Carver – e per gente intendo te, me, i lettori in genere, i critici. Comunque, io non sono loro, non sono noi, sono io. Può darsi che alcuni di questi racconti non si adattino facilmente a starsene allineati in fila con gli altri, è inevitabile. Però, Gordon, giuro su Dio e tanto vale che te lo dica subito, non posso subire l’amputazione e il trapianto che in un modo o nell’altro servirebbero a farli entrare nella scatola, di modo che il coperchio chiuda bene.”
Già da “Cattedrale”, dunque, Carver punterà i piedi per restare fedele al proprio stile e la sua notorietà si mantiene stabile anche se la prosa cambia completamente direzione. L’opinione pubblica, su questa vicenda, si divide chiaramente in due: c’è chi sostiene che Lish abbia fatto un grave torto a Carver con quell’opera di editing spietato e la prova sarebbe data dal fatto che Carver ha continuato a vendere e a essere premiato anche dopo, una volta riappropriatosi del proprio stile. I più maliziosi sostengono, invece, che Lish abbia costituto la fortuna di Carver, che il pubblicare quella raccolta esattamente in quel modo sia stata la svolta che ha portato il faro dell’establishment a illuminare il suo protetto e che una volta entrati nell’Olimpo della notorietà, il successo è un processo che si autoalimenta e che quindi tutto il resto della produzione di Carver (che non è così sterminata, in quanto è morto di cancro nel 1988) beneficia di quel faro, acceso nel punto giusto, al momento giusto.
Io penso che la verità stia nel mezzo. Il successo è, in realtà, estremamente ondivago e solo chi ha una fama consolidata da anni di pubblicazioni o presenza, in qualsivoglia campo, può permettersi di vivere di rendita e, quindi, di riuscire a vendere anche opere meno belle di quelle prodotte in passato, poiché godono di un filtro affettivo o, comunque, di un pregiudizio positivo nei confronti dell’autore. Ottenere un grande successo editoriale con un’opera non ti garantisce necessariamente una stabilità di fama. Anzi, più ha venduto il primo libro, più si ha il timore che il secondo sia un flop. Ciò nonostante non si può negare che l’intervento di Lish nella vita di Carver ne abbia segnato la svolta in quanto a notorietà e situazione economica.
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