L’OMBRA DI ME
Di Fausta Altavilla
“Salvatore sbrigati; vieni a salutare il nonno!”
Mi prese la mano e con ferrea determinazione, zia Assunta mi accompagnò al cospetto della salma. Era stata irremovibile: avvicinarsi al feretro, per un ultimo saluto, sarebbe stato un segno indelebile d’affetto che il defunto avrebbe condotto con sé nel suo nuovo viaggio. Il profumo intenso dei fiori aveva intriso la stanza, la luce del meriggio filtrava dalle imposte del salotto portando con sé il tepore della primavera. Mia madre era seduta lì, accanto a suo fratello Antonio e a nonna Rosa, vestita col suo abito nero che la rendeva più esile di quanto non lo fosse già. Eravamo ritornati a Cetara per il funerale, io e mia madre. Mio padre aveva messo su un’ennesima scusa per non accompagnarci; del resto come avrei potuto biasimarlo, dopo l’ennesima sfuriata con mia madre! Era sempre lo stesso ritornello: un andirivieni perenne che si concludeva con minacce di separazione senza seguito. Sofia Carminati era una bella donna sui cinquanta, anche se ne dimostrava almeno dieci di meno, ed era l’orgoglio della sua famiglia. “Si era fatta strada da sola”, come si suole dire, senza timori e inciampi. Lavorava, come consulente, presso la “Arwell Group Management”, in una filiale del Canton Ticino. Lei e Peter Rwen, mio padre, si erano conosciuti a casa di amici comuni e avevano cominciato a frequentarsi sin da subito. Il giorno in cui le chiese di sposarlo, Peter mise in atto una delle sue rocambolesche pantomime che lo vide protagonista di una dichiarazione d’amore tra le più romantiche che si potesse immaginare! E lei, si era innamorata sin da subito.
“Ci vediamo presto, papà. Quest’estate verremo a Cetara per le vacanze!”. Si erano salutati così, qualche mese prima, mia madre e nonno Salvatore, con la promessa di rivedersi presto e sfogliare insieme quell’album dei ricordi che aveva reso l’infanzia di Sofia unica e meravigliosa.
Il vento serale faceva capolino, a breve il sole sarebbe tramontato, i lunghi filari di cipressi lasciavano a malapena intravedere gli ultimi raggi di sole. Il corteo avanzava lento verso Cetara, lasciando alle spalle la cancellata del cimitero. Fu quella la prima volta che ebbi consapevolezza che un misterioso legame mi legava a quel posto, a quella gente. Nel silenzio di quel ritorno a casa, percepivo quel suo dolore sordo; avrei voluto risparmiarle quell’ennesima sofferenza! Le strinsi la mano e gliela baciai. Avevo appena avuto il tempo di sistemare le mie cose, nella camera che era stata di mio zio Antonio, quando vidi la casa di nonna Rosa, inondata di gente. Era consuetudine, infatti, in quasi tutti i paesini del Sud, protrarre il cordoglio per qualche giorno e ricevere visite di parenti e amici. La tavola, imbandita con ogni sorta di dolciumi, serviva per stemperare l’amaro dolore, mentre rosari e giaculatorie accompagnavano le ore. Io ero seduto in disparte e assistevo a quel rituale come se ne fossi il protagonista. Guardavo compiaciuto il cordoglio di chi non se ne era andato. Il respiro si fece soffocante. Non era la prima volta che vivevo un corpo che non era il mio.
Nonna Rosa era il principio e la fine di ogni cosa per la famiglia Carminati. Accompagnava ogni mattina suo marito Salvatore alla marina di Cetara, attendeva che tutto fosse pronto per la pesca e, con lo sguardo, seguiva quella figura familiare che, con la sua barchetta, lasciava il porto. E rimaneva lì, sul molo, fino a quando lo vedeva allontanarsi e diventare un minuscolo puntino. Durante la strada del ritorno, recitava lodi mattutine alla Madonna della Marina e tornava a casa, per accudire Sofia e Antonio e prendersi cura delle alici per la colatura.
Aveva una passione smisurata per quell’attività. Aveva collocato, al centro della stanza, situata sul retro della casa, un paio di tinozze in cui preparava una salamoia, all’interno della quale teneva a riposo le alici, dopo averle private della testa. Quelle giornate erano le più intense ed ogni procedimento era attento e meticoloso. Le alici venivano, poi, disposte in grosse botti e alternate a strati di sale grosso. Quest’operazione richiedeva una cura particolare nella distribuzione dei cristalli di sale: il pesce doveva essere accuratamente coperto con uguale spessore. Il profumo del mare inondava la stanza e quasi ti lasciava stordito, come il buio della stanza, penetrante e necessario per garantire il successo della colatura. Ero io, il solo privilegiato a cui nonna Rosa concedeva di osservare la meticolosa preparazione. Sentivo, in cuor suo, la speranza che, la sua passione nel preparare la colatura di alici, passasse a me, unico erede maschio della famiglia.
Fu dopo la morte di mio nonno che io e mia madre cominciammo a recarci più spesso a Cetara. La mia vita in città era qualcosa di molto diverso dalle giornate assolate e cariche del vociare popolano. Mia madre adorava guardare l’armeggiare a riva, con le barchette in legno che avevo appena costruito. Dovevo assolutamente collaudarle, scoprire la loro volontà ferrea di rimanere a galla, di conquistarsi il mare. Salvatore Carminati mi ha trasmesso, oltre al nome e al ceruleo degli occhi, la tenacia e la pazienza del pescatore, doti necessarie e indispensabili per la vita.
Mi sentivo padrone dell’universo, un universo fatto di piccole e semplici cose: i colori ambrati del tramonto, l’azzurro e l’oro delle maioliche, il rumore della risacca sulla marina, il coraggio fiero della Torre Saracena. Ogni pietra a Cetara ha una storia dentro di sé, basta ascoltare le voci e i suoni che vi giungono. In pochi giorni avevo fatto amicizia con l’intera brigata fanciullesca del borgo. Pasquale, sempre col moccio al naso, era il più fantasioso. Si metteva alla testa del lungo corteo di bici e ci conduceva verso la parte alta di Cetara, attraverso piccole stradine sterrate. Giunti a destinazione, accantonavamo le nostre biciclette in uno slargo del sentiero e raggiungevamo il nostro nascondiglio segreto a piedi, percorrendo una breve strettoia tra i filari di agrumeti.
“Giuro e spergiuro e quello che vedrò, tutto per me terrò”, con le dita incrociate e mani al petto, Pasquale ci faceva recitare questo rituale e, carico di gioia, ci conduceva al casolare di suo nonno Gennaro. Sul retro della casa, in un piccolo stanzino adibito a rimessa degli attrezzi, Pasquale aveva nascosto il suo piccolo tesoro: un antico medaglione di bronzo, recante l’effigie di qualche imperatore e una fibula d’oro. Li teneva avvolti in un panno di velluto, come preziose reliquie, diceva di averle ritrovate, dopo una violenta mareggiata, tra i ciottoli della spiaggia nei pressi della Torre Saracena. Ci piaceva fantasticare sulla storia di quel ritrovamento e ripercorrere, nel nostro immaginario, il loro lungo percorso storico. Ognuno di noi si divertiva a immaginare una storia e poi, a turno, raccontava al gruppo. Avrebbe vinto chi fosse riuscito a costruire la vicenda più avvincente e straordinaria. Trascorrevano così le nostre giornate, con la leggerezza del vivere semplice, del calore umano e dei profumi del borgo.
Qualche volta, con Pasquale, andavamo fino alla chiesetta di Santa Maria di Costantinopoli. Don Ciccio era lì, sull’uscio dell’oratorio, ad aspettarci. Doveva sentire tutto il peso della ripida rampa di scale che avevamo salito sotto il sole estivo, perché lui, con i suoi centoventi chili di peso, ci veniva incontro con tutta la sveltezza che poteva e ci ristorava, con una fresca premuta di limoni e un sorriso di gioia. La nostra gioia pura, invece, la provavamo quando si presentava, in tutta la sua maestosità, il calciobalilla. I giocatori erano lì, allineati, ad aspettarci, ansiosi di sentire il roteare della pallina scorrere lungo il campo, le urla di gioia per la vittoria o, peggio, le infanti imprecazioni, mentre Don Ciccio, poco distante da noi, copriva con i “Gesù e Maria” lo sfogo scurrile di Pasquale.
Rimanevamo lì, sino all’ora dei vespri, con la chiesa gremita di devoti in processione che si dirigevano ad adorare la Madonna col Bambinello. Il profumo delle zagare, mescolato all’incenso, ci stordiva. Don Ciccio, dall’altare, cominciava la sua predica. Un segno di croce ed eravamo liberi di riprendere la nostra corsa verso la strada del ritorno.
Nonna Rosa abitava in una delle casupole nei pressi della Marina, dalla piccola finestrella del soppalco, adibito a stanza da letto, il mare spadroneggiava indiscusso.
“Salvatore, e’ vir’ e’ lucciole into mare?”, con il dito puntato verso l’immensa distesa che appariva davanti ai nostri occhi, Pasquale mi indicava le piccole lampare. Sentivo una strana pulsazione nelle vene. Avevo già vissuto quel momento; non ricordavo come, dove, quando. Le imbarcazioni procedevano lente, ordinate in una processione silenziosa con le loro lampade accese. Lo scintillio illuminava le profondità oscure attirando le alici verso le cianciole. Era quella, la sera per la pesca delle alici. Nonno Salvatore sarebbe stato sicuramente in mare e nonna Rosa avrebbe aspettato con ansia il suo ritorno. I racconti di mio nonno erano sempre circostanziali, legati alla narrazione di operazioni tecniche, niente di più. Il sole, il vento e la salsedine si erano impadroniti della sua pelle, ne avevano scavato anfratti profondi e si erano annidati nella sua anima lasciandone un segno indelebile. Ne sono sicuro, anche il mare era lì tra i suoi ultimi pensieri prima del suo addio. Un garrito assordante, la pelle impastata di salsedine, il mare intorno. Cetara era un ricordo. Il mare no. Era un’ossessione perenne. La pelle gelida e la notte tra le onde squarciavano la mia mente senza un perché. Salvatore Carminati non mi aveva mai lasciato.