RACCONTARSI SULLA SABBIA

Racconto in concorso

RACCONTARSI SULLA SABBIA

Di Davide Falsino

Qualche tempo fa camminavo sul litorale tirrenico. Era una limpida mattinata invernale, quando notai una bottiglia chiusa con un tappo di sughero, contenente alcuni fogli stropicciati ed arrotolati. La raccolsi e mi sedetti, incuriosito, a leggerne il contenuto. Intorno a me non c’era anima viva.

Il testo recitava così:

Sedevi lungo la spiaggia ionica. Tenevi la testa china e non parlavi con nessuno. Mi piace pensare che fossi in luoghi segreti dove il mondo non poteva metterci il naso. Il mormorio del mare ti suggeriva verità antiche che, vibrando nel tuo spirito, dovevano tradursi in slanci creativi. Quel pomeriggio, la luce del sole scintillava sugli spigoli appuntiti di uno scoglio che fuoriusciva dal bagnasciuga. Vedesti quel meraviglioso luccichio, vacillante in ogni istante, sempre uguale eppure sempre diverso; i tuoi occhi sorrisero e il mio sguardo vide che il tuo non vedeva più nulla di ciò che ti circondava: né i bagnanti, né le signore anziane immerse nel loro pettegoloso chiacchiericcio, né i ragazzi che giocavano a pallone. Né ti accorgesti che da tempo ti stavo osservando. In preda a qualcosa che palpitava chissà dove, forse un’emozione o un ricordo, prendesti un bastoncino di legno e tracciasti delle misure. Le tue mani si muovevano frenetiche, dapprima scavando, poi ammonticchiando zolle di sabbia bagnata, poi levigando le forme.

«Che fai?», ti chiese una bambina. Era lì, di fronte a te, in piedi. Ricordi? Aveva tra le mani un secchiello ed una paletta. Era sola.

«Giochi con la sabbia?»

«Non sto giocando», rispondesti un po’ seccato.

«Allora qualcuno ti paga per fare le sculture di sabbia?»

«No.»

«Allora perché l’hai fatta? Si vede che non sei ancora cresciuto. I grandi non giocano e non spendono il loro tempo se non per far soldi.»

Che cosa strana, può essere la solitudine. Te ne stai per conto tuo e un bel momento ti salta fuori qualcosa che fa saltare i tuoi progetti. I bambini, poi, sono in grado di metterti in crisi, con le loro domande. “L’ho fatta perché mi andava di farla!”, avresti potuto risponderle. Non bastava, come ragione? “Ora torna dalla mamma o vai a giocare altrove (e lasciami in pace)”. Invece ti sforzasti di assecondarla. Immaginavo che l’avresti fatto.

«Chi ti dice queste cose?»

«Me le dice il mio papà.»

«E tu gli credi?»

«Certo. Me le dice sempre, ogni volta che gli chiedo di giocare con me. Ma ora non c’è. Non c’è mai. Neanche la mamma gioca con me: pensa sempre ad altro. Però a volte mi racconta delle storie per farmi addormentare.»

«E tu dormi?»

«Sì. Stringo le palpebre e vedo paesaggi così belli da mozzare il respiro.»

Sembrava assorta in uno di quei silenzi sognanti di cui solo loro, i bambini, possiedono le chiavi per interpretarli. Si sedette proprio davanti a te e fece una collinetta con la sabbia. Era come se ammucchiasse con la paletta tutti i suoi pensieri, le sue immagini sparse, i suoi desideri, le sue ragioni che non sapeva esprimere.

Poi ti domandò il nome di quella donna di sabbia. E poi ti chiese di raccontarle la sua storia.

«Va bene, va bene», le dicesti divertito. «Interroghiamo la sabbia. La sabbia porta in sé tanti ricordi. Vediamo che cosa ci suggerisce.»

«Facciamo così: Penelope all’inizio non era di sabbia, ma poi lo è diventata per qualche fatto stranissimo», rispose.

E così incominciò quel tuo volo di fantasia. E la bambina visse le giornate della bellissima Penelope che ogni giorno andava a sedersi proprio lì, su quello scoglio, ascoltando la musica del mare con tutto il suo corpo e perdendosi fra le onde, mentre l’acqua le arrivava fino alle ginocchia e dissolveva ogni cosa davanti a sé, e la risacca le accarezzava le caviglie e i sassolini della riva l’accompagnavano negli abissi meravigliosi, senza né tempo né luogo. E la bambina spasimò per l’amore che un giovane artista provava per la ragazza e che, troppo timido per parlargliene, le rivelò in modo assai singolare, ritagliandone la stupenda immagine, come da carta velina, e formandola nella sabbia. E sussurrò alle onde: “Abbiate la bontà di condurre il riverbero di questa immagine da lei, perché vorrei essere felice per un istante”. E le onde si compiacquero di farlo segretamente. E la ragazza aprì gli occhi e incrociò quelli del giovane artista. E il loro fu un misterioso colloquio, fatto di soffi impercettibili, di voci interiori, di palpiti, di silenzi e di voci sconosciute nascoste dietro quei silenzi. E sembrò, alla bambina, di camminare con loro tutto il pomeriggio e fino al sorgere della luna, camminando sulla riva del mare ora a piccoli passi, ora fermandosi per lungo tempo a parlare sottovoce col capo chino; ora a fissarsi negli occhi, ora a volgere gli occhi, e vedendo improvvisamente i riflessi irrequieti della luna piena che ormai brillava placida sulle onde calme del mare. Ora Penelope sospirava e il giovane le sussurrava timido, ora lei voleva sedersi ancora sul bagnasciuga e lui si sedeva accanto a lei. E ridevano, e tremavano, e fantasticavano, e ancora si fissavano negli occhi. Lei gli sfiorò il braccio e lui le strinse la mano, lei teneramente appoggiò il capo sulla sua spalla e lui le baciò i capelli d’argento, mentre una lacrima scorreva sul suo viso.

“Ti prometto amore eterno”, le disse. E arrossiva.

“È ora di salutarci”, rispose lei. E le sue guance si accesero.

“Domani sarà un giorno bellissimo”, riprese lui, alimentando speranze.

«E si sposarono?». Ti chiese, sognante, la piccola.

No!

E lei rabbrividì! Le raccontasti dell’uomo della grande barca a vela. Le dicesti che la bellissima si era lasciata irretire da colui che, con un solo movimento del braccio, poteva dettare le regole della società. Dimenticando presto il giovane artista, portò al largo il sogno di poter vivere una vita agiata e densa di successi. Penelope …

Per un lungo istante rimasi a fissare il dondolio di quella oscura barca che seguiva il riflusso della marea. Attesi fino a che un improvviso raggio di sole non perforò la nuvoletta, catturando lo svolazzare dolce delle vele. Palpitò in me il cuore di Penelope, mentre incominciava a nuotare, eccitato dalle onde che, l’una dopo l’altra scorrevano, prolungando la vanità di quella seduzione, audace e intelligente. E quando la spiaggia ionica a poco a poco sparì e i due puntarono a ovest, a piene vele, verso le colonne d’Ercole… ne percepii il richiamo simbolico, l’allusione, quel perdersi in un orizzonte da cui non si torna più indietro.

E così fu.

Per me.

Perché quella bambina ero io.

Quel pomeriggio, quel breve interludio sulla spiaggia, durante il quale rimasi affascinata dalla tua scultura di sabbia, da quella storia che forse era un mirabile ritratto della tua storia macerata sulla battigia, ebbene, quel pomeriggio mi appartiene come sangue che scorre nelle vene.

Quante volte avvertii in me la profonda solitudine di quel giovane artista!

Quante volte risuonarono e mi risuonano ancora quelle parole rivolte all’amata perduta!

Urlate nelle profondità inudibili dell’assenza…

“Hai detto:

‘Andrò in un altro mare.

Uno migliore di questo, ci sarà’.

Il mio cuore è sepolto sotto questa sabbia.

Fino a quando potrò reggere?

Dei pochi attimi trascorsi qui, non resteranno che mutevoli impronte e rovina.

Non troverai altri mari!

La vita che hai sciupato in questo lido, in tutti i lidi l’hai sciupata”.

Il mare è un buon conduttore. Fece giungere fino a lei quella voce disperata. E lei la scambiò per un’eco marina. Poi fu presa da un dolente rimorso. E avvertendo dentro sé una natura liquidamente inafferrabile, si lasciò mutare in sabbia. Per immergersi nella tenebra acquatica. Per attendere, come araba fenice, che dalle ceneri d’un’infantile fantasia del giovane artista, un giorno sarebbe risorta sulla spiaggia ionica. Per ricongiungersi con lui.

D’un tratto, un’onda più grossa delle altre tranciò il corpo della tua scultura, lasciandone intatta solo la testa. Piansi a dirotto. Per consolarmi, mi facesti una foto di quel che rimaneva di Penelope.

Eccola! Ancora la conservo:

Con una carezza mi salutasti. E riprendesti a camminare lungo la spiaggia ionica, ritornando in quei tuoi luoghi segreti dove il mondo non poteva metterci il naso.

Avvenne dieci anni fa!

Ci sarei anch’io, nella sabbia, accanto allo scoglio. Forse un pochino più giù; sì, proprio lì, sdraiata verso il mare, guardando quella superficie increspata come in attesa di un’onda che solo per caso s’infrangerebbe, portandomi via nella corrente.

E sarebbe un adattarsi lento allo spazio, alle orme, un farsi granello in un insieme di granelli infinitamente piccoli, non raccontabili, ma che raccontano storie. No! Non quelle importanti, non quelle storie che aveva raccontato Sheherazade. Storie che non entreranno mai nella storia; storie banali, frivole, insignificanti, storie che si ripetono sempre uguali; eppure ognuna di queste storie sfuggirebbe alla legge del determinismo, perché si porrebbe in modo singolare, con del proprio, con un sentimento peculiare che nessun’altra può dare.

E allora il lento adattarsi della sabbia si adatterebbe ancora alla tua invenzione vitale, allo slancio creativo, senza una ragione apparente, o forse senza una vera ragione, riassumendo nelle tue forme sempre nuove, sempre diverse, conservando nella memoria tutti quei minimi gesti dettati dalla tua fantasia, dalla vita dello spirito.

E allora la sabbia sarebbe ancora Penelope con la sua storia, con la sua dolcezza fuori del comune, con la sua ingenua fiducia nelle ragioni inquinate del cuore.

E si verrebbe a sapere che Penelope è divenuta qualcosa di simile ad un’attesa.

Il mare è un buon conduttore.

Che queste righe, vagando per mari e sponde imprevedibili, possano giungere misteriosamente a te, o mio sconosciuto artista.

Mi resta poco.

Come orma sulla sabbia è stata breve la mia vita!

La mia pelle è già riarsa dal sole.

Presto sarò calpestata

Dall’incauta zampa

d’un gabbiano…

Smisi di leggere. In un certo senso, morivo con lei. Richiusi il contenuto nella bottiglia e lo lanciai nuovamente in mare.

Intorno a me non c’era anima viva.