UNA BAMBINA VERA
Di Sara Ortolani
«Carolina! La colazione è pronta!»
Il mattino si intrufolò tra le tende e solleticò le palpebre di Carolina. Aveva indugiato al calduccio, abbracciata a Lillo (il delfino di peluche), fino all’ultimo minuto. Scese dal letto, infilò le pantofole-unicorno e saltellò in cucina, tutta trecce e apparecchio per i denti. C’era profumo di caffè e plum-cake.
Carolina si gettò tra le braccia della madre e affondò il viso nel suo grembiule.
«Buongiorno, mamma. Ti voglio bene».
Una mano le si posò sulla testolina.
«Tutto bene, tesoro?»
Carolina strofinò la guancia contro la stoffa macchiata di pranzi e cene.
«Sì! Ho fame!» e corse a divorare le prime calorie della giornata.
Impalata di fronte al piano cottura, la mamma la osservò mentre spazzolava torta e latte al cioccolato, le sopracciglia inarcate in una curva curiosa.
«Hai già scelto i vestiti per oggi?» le domandò.
«Puoi sceglierli tu per me?» supplicò la piccola, già sulle scale.
«Io? Sicura?»
«Sicurissima!» e si arrampicò fino al primo piano.
«Ma che ne hai fatto di quella peste di mia figlia?» mormorò la donna tra sé e sé.
Carolina sfrecciò davanti alla cameretta e improvvisamente frenò sul parquet. Una sensazione di zampette di ragno lungo la schiena l’aveva paralizzata. L’impressione di essere vista. Qualcosa la stava guardando, qualcosa
nello specchio
che la fece sentire come dopo una sgridata di papà. Non poté resistere alla tentazione di sbirciare…
Lo specchio incorniciava la gamba del letto e la coda di Lillo. Nient’altro. Un sogno a occhi aperti?
La bambina sbatté le palpebre e si dimenticò di ciò che non aveva visto.
Drin.
La campanella della ricreazione causò un’esplosione di vitalità: i libri rimasero a sonnecchiare sui banchi, penne rotolarono negli astucci e merendine fuoriuscirono dagli zaini.
In cortile, Carolina venne accolta dai gridolini di tre coetanee.
«Dov’eri finita?» la rimproverò Rebecca.
«Ma che ti sei messa, oggi?» Roberta la guardò come fosse guano di piccione.
Carolina toccò la salopette scelta dalla mamma.
«Oggi era la giornata Principesse Disney, ti sei dimenticata?» si lamentò Giulia.
Solo allora Carolina notò che le amiche indossavano maglie stampate rispettivamente con la principessa Jasmine, la sirenetta Ariel e Biancaneve. Lei deglutì, imbarazzata.
«Non fa niente» la liquidò Rebecca. «Andiamo a prendere in giro Brunella. Si starà mangiando le caccole».
Le “principesse” partirono al grido di mangia-caccole. Trovarono Brunella che giocava col terriccio. Al loro arrivo, quella spalancò gli occhi a mandorla e si ritrasse come un animale in gabbia.
Mangia-caccole, mangia-caccole.
Ora Brunella piangeva. Muco e lacrime le impiastricciavano il viso. A Carolina si strinse il cuore alla vista della compagna con la Sindrome di Down che singhiozzava.
«Basta così» esclamò. «Non vedete che è disperata?»
«Che ti prende, Carolina?»
«Sei stata tu a inventare mangia-caccole!»
«Beh, sono stata una stupida» si intestardì lei. «Lasciatela stare».
Le ragazzine fissarono Carolina come fosse un’aliena. Infine, con smorfie di superiorità, sparirono in cerca di un’altra vittima da bullizzare.
Carolina, invece, si chinò su Brunella. «Mi dispiace».
Brunella si strofinò gli occhi gonfi. «Grazie» balbettò, col caratteristico accento stentato.
Carolina sapeva che Brunella non era come tutte le altre bambine. Forse non era in grado di leggere o far di conto e parlava in modo buffo, ma capiva benissimo certe cose come la cattiveria e il suo opposto. Le lanciò un’occhiata in cui brillava un’intelligenza incompresa.
«Tu chi sei?» domandò. «Non sei Carolina».
Un tremito scosse Carolina.
«Certo che sono io. Andiamo, ricomincia la lezione».
Quando scese dallo scuolabus, Carolina trovò la mamma che l’aspettava sul cancello.
«Tesoro! Guarda chi è venuto a trovarci!»
All’ingresso di casa c’era Brunella, con un sorrisino vergognoso che le ingentiliva i lineamenti, aggrappata alla mano di una signora.
«Brunella è venuta di persona a ringraziarti» spiegò la donna, carezzando i capelli della figlia. «Mi ha raccontato che cosa hai fatto per lei a scuola».
Ora era Carolina ad avere una faccia da pomodoro maturo.
«Perché tu e Brunella non giocate in giardino mentre noi prendiamo un caffè?» suggerì la mamma.
Carolina incrociò gli occhietti disarmanti di Brunella.
(Tu non sei Carolina)
Trattenne un brivido, si sforzò di sorridere.
«Certo, mamma».
«Vuoi che ti spinga?»
Brunella dondolava sull’altalena ma non riusciva a sollevarsi in alto.
«Sì» Brunella espose gli incisivi.
Carolina fece oscillare il seggiolino. Dopo un po’, trovò il coraggio di porre il quesito che la assillava.
«Brunella, perché hai detto che io non sono Carolina?»
La ragazzina si girò a guardarla da sopra la spalla.
«Tu sei buona. Carolina ha gli occhi cattivi».
«Se non sono Carolina, allora chi sono?»
Brunella scrollò le spalle. «Se tu sei Carolina, allora chi è quella che ci fissa dalla finestra?»
Carolina alzò la testa.
C’era qualcuno alla finestra del primo piano.
Ingoiò un urlo. Quando trovò la forza di guardare di nuovo, scoprì che oltre il vetro c’erano soltanto le tende scostate.
«Carolina, Brunella! Vi va il gelato?»
Brunella batté le mani, contenta. Carolina torse le dita. Di colpo, aveva perso l’appetito.
Quella notte, Carolina artigliava Lillo sotto le coperte, come se il peluche fosse la salvezza da ogni pericolo.
«Ehi tu».
Carolina drizzò le orecchie.
«Dico a te! Insomma, sei sorda?»
Guardinga, sbirciò l’ovale dello specchio, nel quale aleggiava un riflesso senza originale. Il suo riflesso.
«Allora» sibilò la Carolina nello specchio, malevola, «esci dal mio letto sì o no?»
Carolina fissò sgomenta il proprio doppio entro la cornice.
Deve essere un incubo.
«No, non è un sogno» bisbigliò la sagoma nello specchio. «Tu sei nel mio letto e io sono nel Trasparente tra i mondi. Non sai che fatica arrivarci, Loro ci controllano e se proviamo a scappare zac!», fece un gesto che poteva significare una sciabolata. «Io sono riuscita a trovare un passaggio. Rimarrà aperto per pochissimo tempo, quindi dobbiamo sbrigarci».
«Tu… chi sei?» balbettò Carolina.
Una vena di cattiveria la raggelò.
«Sono Carolina, razza di idiota, non vedi?»
(…chi è quella che ci fissa dalla finestra?)
«Non è possibile» farfugliò Carolina, rannicchiandosi contro il cuscino.
«Invece sì» insisté l’altra. «Io sono Carolina, quella vera, e tu sei una bambina finta lasciata da Loro al mio posto. Lo fanno a volte, sai? Così, per gioco. I folletti, intendo. Rapiscono i bambini e ingannano i genitori con fantocci schifosi apparentemente identici ai figli. Come te».
«Bugiarda!» piagnucolò Carolina.
«Se non mi credi, vieni a mezzanotte nella casetta di legno dove i giocattoli vanno a morire. Lì il Trasparente è più sottile, si può quasi attraversare. Vieni e vedrai. C’è un mostro qui, ma non sono io». Puntò un dito come a dire sei tu.
Carolina gridò: «NON È VERO!»
Attraverso un velo di lacrime, vide nello specchio soltanto una bimba terrorizzata nascosta dietro a un pupazzo. L’incubo era finito. Anche se non aveva affatto l’impressione di essersi svegliata.
E se non fosse stato un incubo?
Si avvicinò alla finestra. Il prato era una pozza di tenebra e la casetta di legno non le era mai sembrata così terrificante. Ciononostante, strinse una manina a pugno.
«Torno subito, Lillo».
Silenziosa come uno spettro, uscì dalla camera.
La casetta di legno si stagliò, tetra come un racconto dell’orrore, di fronte a Carolina. Intirizzita, la bimba attese tremebonda sulla soglia in miniatura. Non aveva mai avuto così paura di aprire una porta.
Il Trasparente tra i mondi…
Allungò una mano.
I folletti…?
Girò la maniglia. Una fessura di buio si delineò tra stipite e battente.
«Sei venuta» disse una vocina in tono di scherno.
La fessura divenne un riquadro in cui spiccava un visino malevolo. Il suo viso.
«Brutto mostro» la investì il doppio. «Ridammi ciò che è mio. Rivoglio la mia casa! Rivoglio la mia mamma!» e fece per afferrarla.
Carolina indietreggiò, incespicò e cadde a terra, invocando a gran voce i genitori. L’altra Carolina stava per ghermirla!
«Carolina! Che fai qui fuori a quest’ora?»
La luna, appena sorta dietro l’orizzonte, illuminò con un debole raggio la vestaglia rossa della mamma. Con le guance inondate di lacrime, Carolina gattonò verso la madre e si nascose nel suo abbraccio. Non riuscì a rispondere alle sue domande, né poté smettere di piangere finché non fu al sicuro nel lettone di mamma e papà – la prima volta che dormiva con loro da quando aveva tre anni. Il grido finale dell’altra Carolina le riecheggiava dentro.
“Mamma, no! Non abbracciare quello schifo! Carolina sono io! SONO IO!”
Poi, l’incubo si era dissolto. Ovvio: lei era una bambina vera, non un fantoccio, tantomeno un mostro.
Sì, era stato un incubo.
Rincuorata, si addormentò.
Il cortile della scuola era invaso da grembiulini azzurri che sciamavano come formiche verso i loro banchi. Brunella era una formica tra le tante – o almeno così sperava, perché spesso si sentiva uno scarafaggio, brutto e fuori luogo.
Mentre dava un bacio alla mamma, notò una scena simile sul marciapiede opposto: una donna si chinava per baciare la figlia venuta a imparare la prossima lezione. La mamma di Carolina. Brunella aggrottò le sopracciglia, ma non appena intravide la piccola, si rilassò. Meno male. Non era Carolina, quella crudele, che aveva inventato il mangia-caccole. Era quella buona, che l’aveva difesa dalle bimbe cattive. Non importava che non assomigliasse per niente a una bambina: il suo torso era un ciocco di legno, da cui spuntavano rametti al posto degli arti, un ciuffo d’erba faceva da capelli e un sacchetto di iuta sostituiva la testa. Brunella era abbastanza certa che quella cosa non fosse una bambina. Poco male: la cosa era molto più gentile della bambina vera, persino la sua stessa madre non sembrava rimpiangere l’originale. Se nessuno gliel’avesse chiesto, Brunella non avrebbe detto a nessuno che la sua compagna di banco era un ciocco di legno con erba per capelli. Ed era abbastanza sicura che nessuno le avrebbe mai chiesto se Carolina era una bambina vera.
35 risposte
Voto questo racconto.
Voto questo racconto
Voto questo racconto
voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto!
Voto
Voto questo racconto perché è bellissimo!
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto.
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto!
Voto questo racconto
Voto questo racconto!
voto questo racconto
Voto questo racconto.
Voto questo racconto
Voto questo racconto.
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto
Voto questo racconto
ATTENZIONE: Vi ricordiamo che ogni singolo voto viene monitorato dallo staff di due redazioni. Eventuali irregolarità ripetute porteranno all’esclusione dalla competizione del racconto. Questo significa che non solo l’autore non potrà vincere il premio “Scelto dal Pubblico”, ma che non potrà neppure essere selezionato dalla giuria per l’inserimento nella raccolta né, tantomeno, vincere uno dei premi aggiuntivi destinati ai primi tre classificati. Ogni racconto può essere votato UNA SOLA VOLTA da uno stesso utente, a prescindere da quale mail utilizzi. Ad esempio, sarà ritenuto irregolare il voto di un utente espresso prima con una mail e poi con un’altra. Vi invitiamo alla sportività per non danneggiare gli autori che avete invece intenzione di sostenere. Grazie.
Buongiorno, scrivo in quanto ho notato questo messaggio e volevo chiarire il disguido: mia suocera ha votato usando l’email di mio marito in quanto non ne ha una sua, non sapendo che questo avrebbe invalidato il voto. Non si è trattato di voto doppio. Chiedo scusa per l’inconveniente e spero che questo non infici la partecipazione del racconto al concorso. Grazie mille.
Sara
Quando mettiamo segnalazioni è sempre perché c’è più di un caso. Per il momento non si preoccupi: non facciamo nulla senza avvertire prima.
Voto questo racconto
Voto questo racconto!
I commenti sono chiusi.