LA LEGGE DELL’ASSOLUTIVITÀ

Racconto in concorso

LA LEGGE DELL’ASSOLUTIVITÀ

Di Davide Rinella

Afferro il passamano con una mano, ovviamente, e mi tiro su per un’altra rampa di scale. La rivoltella è nella mano sinistra, e realizzo che il passamano questa volta è a destra, mentre invece il bagno è sempre in fondo a destra. Ma penso che io non sono mancino e che quindi la pistola devo tenerla nella mano destra. Destra, destra, destra. Una ripetizione incessante, i gradini, e li salto a tre a tre.

Mi fermo. La mia bocca emette uno sbuffo secco: passo la pistola di nuovo nella sinistra e torno di qualche gradino giù. Fuori dalla finestra, il fumo sale verso il temporale e schegge d’acqua ocra atterrano sul lago d’Iseo. Palermo è meravigliosa anche così.

Mi abbasso a raccogliere la catena attaccata alla fotocopiatrice e stampante laser, che trascino con un sorriso muto e a denti stretti su per le scale. La ferraglia striscia e nitrisce, riecheggiando nel tanfo acre di piscio fresco.

I passi di Noa Minerva proseguono verso l’apice del palazzo di via Teulada, un tempo sede della Rai romana, che da qualche tempo si è arenata qui, in via Libertà. Il quadrante del mio orologio è scheggiato, ma mi pare manchi ancora un minuto e mezzo. Il crepitio dei calcinacci a terra mi indica che è andato a destra: ancora una volta destra. In fondo, un ragazzino entra di soppiatto in uno dei locali occupati; sopra di lui, una donna paraguaiana sbircia e chiude immediatamente la porta davanti a sé.

Il crepitio è alla mia sinistra. Quindi finalmente non destra! Torno indietro, guardo nelle stanze illuminate dalla luce tipica del cattivo tempo e nello stesso tempo calda e premonitrice del mio successo, vani quasi tutti ormai abbandonati da un lato e dall’altro del quinto piano. Spazi angusti: probabilmente ex camerini, magazzini e stanzini.

Un lampo d’ombra attraversa il pavimento in fondo, come se un’apparizione del Buio stesse cercando di farla franca. Corro, ma come su un tapis roulant, visto che intanto tiro per la catena la fotocopiatrice e stampante laser di almeno cinquanta chili. Fitte irritanti mi afferrano i muscoli delle gambe.

Mi fermo davanti alla porta imputata: ancora trentacinque secondi. Appoggio la spalla al telaio, stendo tutte e due le braccia verso il pavimento crepato, armo il cane, entro e punto la mia rivoltella contro l’unica finestra chiusa e illuminata dal temporale. La sagoma di Noa Minerva, smunta, curva e arruffata, si staglia contro la luce cieca. Piccole pozze d’acqua, più simili a dei tuorli d’uovo, picchettano contro i vetri dietro la sua figura inerte, abbandonata e inerme, come sputi di muco di un dio fumatore incallito. Anzi, per essere armata è armata eccome: la sua mano stringe un foglio piegato in due. Dev’essere quella, e non appena premerò il grilletto sarà finalmente mia.

Striscio il quadrante dell’orologio sul mento e piccoli frammenti argentei si alzano in aria. Un colpo di tosse mi spacca il petto: ancora dieci secondi.

Il ferro del grilletto è freddo, ma l’indice a uncino trema e lo sfiora a scatti come se invece fosse ad alta temperatura. Se penso che basta premere con forza e verso di me quest’esigua unghia affilata, un’elastica mezza luna eclissata – come quella che ammiravo con Chiara seduto in una spiaggia assolata quando le stagioni sapevano cambiare ancora, mentre lei mi chiedeva di andare a prenderle un cono vaniglia, fiordilatte e panna, senza rendersi conto che avrebbe fatto prima a bere un bicchiere di latte freddo, a parte l’acidità che le avrebbe causato – affinché le conseguenze erompano in direzione di Noa. Ah, la fisica… È una merda la fisica!

Minerva alza la mano che stringe il foglio davanti agli occhi, chissà se per pararsi dall’aura di luce, che però proviene dalle sue spalle, se per coprirsi nel caso in cui il proiettile riesca a centrarlo o se per far sì che colpisca proprio la formula dell’assolutività, così che io non possa venirne a capo. «E se fosse effettivamente lungo e noioso? Come pensi che riuscirai a imporre la tua percezione agli altri?»

«Zitto! Io so solo che non dovrò più preoccuparmi di stare lì a eliminare i luoghi comuni – nel vero senso della parola, vista la deriva dei continenti – e di evitare di dilungarmi in descrizioni insignificanti, ripetizioni incessanti incluse. Dovresti solo ringraziarmi! Pensa se ci fosse stata la monarchia: il re ti avrebbe fatto giustiziare pubblicamente per furto.»

«Tutti a inneggiare alla monarchia! Ma se invece fosse stato un re ingiusto?».

«E se ognuno dicesse che sono le due, le tre, le sei, le sette, le otto, le dieci, le quattro o l’una e novantasei… tutti nello stesso istante? E pensare che il baffo con la lingua insolente e i capelli al vento asseriva che l’ora letta al livello del mare è sempre diversa da quella letta in piedi su un piedistallo. Peccato non avesse ancora tirato fuori la formula della salvezza, che ora giace nelle tue mani, Minerva defraudatore!»

Questa cosa che Einstein avrebbe mentito spudoratamente dovrebbe farmi e farci incazzare tutti. Ma se fosse la verità, l’assolutività avrebbe conseguenze inimmaginabili.

Holly non sarebbe rimasto ore e ore invano sospeso sottosopra davanti alla porta avversaria, e Benji, soprattutto Benji, avrebbe avuto tutto il diritto di rimanere in assenza di gravità per intercettare in tutta calma la direzione dei tiri dell’altra squadra. Neo, da non confondere con il Noa Minerva defraudatore, in Matrix avrebbe avuto senso all’interno della sua coscienza, cosa che addirittura veniva messa in dubbio quando con tutte le sue abilità schivava a mezz’aria i colpi d’arma da fuoco dell’agente Brown, dell’agente Smith e dell’agente Jones. I quali si sorprendevano, addirittura! Come se ognuno non fosse libero di fare quel cavolo che vuole della sua conoscenza e nella sua coscienza.

Certo, ma con le vecchie leggi. L’assolutività è oggettività, e non ha niente a che fare con la coscienza. E lui, Noa Minerva, lo sa. E anch’io.

Sì, probabilmente ci sarà ancora bisogno di chiedere che ore sono, se ci si è dimenticati l’orologio a casa, ma io avrò il tempo di ognuno e saprò che ore sono a casa di ognuno, mentre mi si leggerà comodamente seduti in poltrona davanti a un televisore spento. E senza che nulla risulti più prolungato.

Noa agita ancora il biglietto di carta davanti agli occhi, come se stesse provando le lenti dall’oculista: «Ok, sospendiamo l’incredulità. Ma sospendiamo anche l’ora, le pallottole in aria, Holly & Benji e il tempo che le persone hanno a disposizione? Un giorno si arriverà a sospendere definitivamente anche i dipendenti maschi in stato di gravidanza! Ogni cosa deve avere il suo tempo!»

Mi gratto il naso con il manico ruvido della pistola: «Tu, di quello che ha fatto il sindacato negli anni, non ne saresti stato neanche capace!» Mancano solo cinque secondi.

Mi squilla il telefonino: «Se tornando, passi a prendere l’estratto di salsa ti faccio la pas-»

«Zia Rosa, ora non posso parlare!» Riaggancio: «Da quando ha perso zio Pino gli sono rimasto soltanto io».

«E alla zia siamo rimasti soltanto noi…»

«Zitto!» Due secondi ancora! Devo uccidere Noa Minerva, prendergli il pezzo di carta, inserire la formula nella fotocopiatrice e stampante laser, che restituirà la mia prossima opera originale, e tornare a casa al lavoro. Non può annientarla così, anche se ha scritto giorno e notte per diversi anni. Anchio ho scritto giorno e notte per anni, adattandomi a pranzi, cene e colazioni accorpate, preparate da mia zia Rosa che abita nella casa di fianco alla mia, dopo che il signor Randazzo, dell’interno 2, ha preferito occupare tutta un’ala di Montecitorio. Un’astronave a cambiamento di sede ortogonale l’aveva trasportato in piazza della Vergogna a Palermo. Pasti misti ogni giorno, come i cani, solo una volta al giorno, e se mi rifiutavo di entrare, zia Rosa mi strizzava contro i suoi occhi avidi di umile culinario autocompiacimento.

Ma negli ultimi tempi ho dovuto dire di no: no al pasto a base di pasta a base di polpa di granchio vegano – nel senso che il granchio era intenzionalmente vegano e nel senso che i paccheri erano fatti di polpa di granchio e neanche lontanamente di grano – e no ai meta-involtini di sarde a beccafico carenti: pangrattato, pinoli, cipolle, limone, alloro, uva passa e fico d’india pelato. Io, separando ogni ingrediente e collocandolo con la lingua tra una gengiva e l’altra, dovevo beccare il fico. Se lo trovavo, zia Rosa mi faceva rimpastare tutto, che però inevitabilmente aveva assunto un altro sapore. Altri pasti erano leggermente più contenuti: quindi no alla melanzana con parmigiano, no a rigatoni, bucatini e spaghetti alla frutta secca, cioè pasta di mandorla e no alla “Ricotta in bacinella e cannolo affogato”, praticamente un’opera d’arte, come la “Natura morta con formaggi” di Floris van Dyck. Che tra l’altro vidi ad Amsterdam molti anni fa in compagnia di un mio ex compagno di scuola, al quale, insieme a Giggio Riggi della 3° G, avevamo attaccato i capelli lunghi allo zainetto che portava in spalla. Mi piacerebbe sentire Riggi, non lo vedo da un po’.

Dovevo lavorare incessantemente e mi rifiutai. La gobba, la barba incolta, le piaghe da decubito al culo, la schiena piegata in avanti sul foglio, il collo quasi come quello di una donna giraffa della Thailandia. E poi i polpastrelli, erosi e ammaccati dalla bachelite dei tasti su cui ormai non si vedono più numeri e lettere di alcun tipo; i pannoloni, per evitare, a una certa età, di alzarmi ogni cinque minuti. Gli occhi, ancorati a una scena per sei-sette mesi, che poi sono diventati sei-sette-otto anni, finché la vista non ha perso ogni sua funzionalità elementare. Ultimamente, ho dovuto usare, anche di giorno, un meta visore notturno a infrarossi e 3D, correttivo a -570 diottrie. Otto euro e novanta al discount sotto casa vandalizzato. Visore che però ora è scassato. Un bip. Sull’orologio lampeggia la scritta “Timer scaduto”. La finestra è ancora accecante ma è chiusa; io sono davanti alla porta e nella stanza non ci sono altre uscite. Dove sarà andato a finire? Ma soprattutto: chi è che stavo inseguendo?