MIGRAZIONI
Di Valentina Schiaffini
A prima vista sembrava un giovane umano appisolato ai piedi di una quercia secolare; i riccioli, che ricadevano sul collo e sulla fronte trattenuti sul capo da una corona di fiori e foglie di edera, coprivano a stento le orecchie appuntite; appena visibile tra le radici sporgenti la piccola coda, caprina nella forma e nel colore; ciò che, più di ogni altro elemento, denotava la sua natura di fauno erano i genitali abnormi, esposti in pieno sole, senza pudore. Proprio questo particolare aveva acceso d’ira, e forse d’invidia, il terzetto di contadini armati di bastoni che si avvicinava minaccioso, il più giovane ed energico tra loro sollevò il pesante bastone pronto a calarlo sul capo del fauno.
In altri tempi, Aristeas si sarebbe voltato facendo finta di niente, i tempi però erano cambiati: l’Imperatore aveva bandito gli antichi culti e con essi implicitamente tutte le creature divine e semidivine. Erano i cristiani ora a perseguitare i pagani.
Così era cominciata la diaspora oltre il limes, l’impero era sconfinato e non c’erano più boschi sacri, fiumi o grotte dove rifugiarsi appellandosi al diritto d’asilo. Lo stesso Aristeas aveva abbandonato la sua selvaggia Tessaglia: lungo il viaggio aveva visto boschi rasi a zero per far spazio a campi, pascoli e abitazioni; templi abbandonati alle sterpaglie, spogliati dei loro marmi per costruire nuovi edifici; ninfe bruciate vive, sirene e tritoni esposti a testa in giù nei porti, sileni scuoiati; e poi tanti, troppi in viaggio, strappati ai loro boschi, fiumi o montagne, costretti a fuggire, spezzati dalla fame e dalla paura. Non avrebbe sopportato di vederne altri, fosse anche uno sciocco fauno ubriaco.
Balzò fuori dalla boscaglia, impugnando il suo arco; superava in altezza i tre uomini con il suo corpo massiccio e imponente, la folta barba e i capelli ispidi gli davano un aspetto selvaggio, benché non fosse più giovane, era ai loro occhi un nemico temibile; questi trasalirono alla sua vista, si guardarono l’un l’altro incerti, poi si lanciarono all’attacco, rozzi e disorganizzati. Al centauro bastò un braccio per bloccare il primo, si voltò rapido, con le zampe posteriori calciò il giovane, il terzo tentò di colpirlo al fianco, ma fu sollevato un palmo da terra dal giovane fauno, svegliatosi a causa del baccano della lotta.
«Che tu sia maledetto, diavolo» l’uomo tentò di divincolarsi ma il fauno lo colpì con una possente testata sulla fronte, lasciandolo a terra stordito e dolorante.
Ci volevano più di tre contadini armati di bastoni per contrastare un centauro e un fauno, gli uomini lo sapevano, così scomparvero nella macchia, lanciando anatemi e maledizioni.
«Dovevano essere parenti di quella giovinetta che mi sono fatto stamattina, in un campo qui vicino. Perché si arrabbiano tanto? La ragazza era contenta».
Aristeas storse il naso e rinfoderò l’arco.
«Fauni, sapete solo scopare e ubriacarvi. Devi partire, idiota, sei troppo vicino al villaggio, oggi ne sei uscito vivo, ma non sarai così fortunato per sempre».
«Io non vado da nessuna parte, centauro, questo è il mio bosco, è la mia casa».
Aristeas non aveva voglia di questionare, aveva avuto decine di discussioni simili: creature silvane convinte di poter continuare a vivere come se il mondo non si fosse rovesciato.
«Il tuo bosco sarà presto un pascolo, gli alberi serviranno per il fuoco o per un altare delle loro chiese. Questa non è più casa tua. La prossima volta verranno i soldati, pagati per darti la caccia, ti braccheranno con i cani, ti accerchieranno e ti ammazzeranno come un porco».
«Proteggo le loro greggi dai lupi».
«Preferiranno lasciare che i lupi mangino le loro pecore, pregando questo nuovo dio di salvarle». Aristeas aveva alzato la voce un tono di troppo, socchiuse gli occhi e contò mentalmente fino a dieci per calmarsi.
«E tu? Che ci fai in questi boschi? Non se ne vedono più molti di centauri, ormai» il fauno cambiò discorso.
«Cerco la mia mandria, mi hanno detto che c’è un gruppo che bivacca nel bosco sacro di Cinzia».
«Ti hanno detto male, sei il primo centauro che vedo da mesi. Non avrai mica creduto alle parole di qualche sibilla strafatta?» il fauno rise. «Ad ogni modo, io sono Aulo e ti sono debitore. Conosco la via per raggiungere il cuore del bosco sacro, lì dove il Ramo d’oro cresce. Se c’è ancora qualcuno della tua gente, è là che si nasconde», raccolse da terra la pelle di pantera e la drappeggiò su una spalla in modo teatrale; seppur di controvoglia Aristeas lo seguì.
Aulo saltellava allegro suonando il doppio flauto, percorrevano un sentiero che risaliva la ripida china del lago coperta da una vegetazione insolitamente folta e rigogliosa; verso occidente si vedeva l’imponente struttura terrazzata che era stata dimora di imperatori, ora ridotta a cava.
Aulo si fermò per osservare l’opera di disfacimento: carri trainati da buoi trasportavano marmi e colonne verso valle, «Spogli un Giove e vesti un Cristo» rise.
Aristeas alzò lo sguardo verso il monte coperto ora da un cappello di nubi grigie «Pioverà».
«Buono per i campi, meno per noi che ci infradiceremo. Non mi piace il puzzo di cavallo bagnato».
Aulo riprese a suonare, la musica era ora più lenta e dolce, adatta ad un pomeriggio che minacciava pioggia.
L’acqua non tardò ad arrivare e con essa le creature del lago approfittarono della nebbia per uscire allo scoperto. Un gruppo di naiadi dalla pelle d’alabastro, i lunghi capelli adorni di fiori gialli, le labbra rosse, avanzavano guardinghe (loro che erano state le signore del lago), quando incrociarono i due viaggiatori, li fissarono in silenzio, finché una mendicò loro del cibo.
Aulo scosse la testa.
«Partite, sorelle, troverete altre sorgenti, acque pure e tranquille in cui vivere» Aristeas frugò nella sacca che portava a tracolla e trovò bacche e carne secca, la ninfa accettò il dono e sparì di nuovo nella boscaglia con le compagne.
Giunti alla sommità del colle, Aulo fece segno di rallentare, avevano raggiunto la strada principale: decine di creature di ogni tipo percorrevano i logori lastroni di basalto portando in spalla i pochi averi che potevano trasportare; sotto la pioggia i visi dei satiri non erano più rubizzi e le driadi sembravano derelitte; un gruppo di baccanti spingeva un carretto con sopra un sileno sdraiato tra sacchi stracolmi e anfore sbeccate, due arpie volavano basse a causa della nebbia, gemendo rabbiose. Aristeas fissò la carovana con un senso di nausea: la stessa scena si ripeteva ovunque andasse; chi poteva fuggiva, gli altri si nascondevano. Voltò la schiena ai migranti e raggiunse in poche falcate Aulo intento ad arrampicarsi lungo una scarpata fangosa.
Al tramonto penetrarono nel luogo più sacro del bosco: una gola ricoperta da carpini, bagolari e lecci centenari, dove sgorgava una piccola polla d’acqua. La quercia era un gigante, i rami massicci rivolti verso il cielo, carichi di foglie lussureggianti, il vischio si arrampicava lungo il tronco, saliva su un ramo e scintillava alla luce del crepuscolo come se fosse stato davvero di metallo prezioso: il ramo d’oro, simbolo della sacralità del luogo, ultimo rifugio terreno di Diana.
Nell’aria c’era odore di pioggia, di muschio e di sangue, seguire la scia di morte non fu difficile: lo spettacolo che apparve ai loro occhi fu uno schiaffo in pieno viso, la battaglia era stata cruenta e non aveva risparmiato nessuno. Corpi straziati, lance e scudi spezzati nel fango, frecce conficcate nel terreno, centinaia di impronte di sandali e di zoccoli in ordine sparso, l’accampamento era stato messo a soqquadro, le tende tranciate dalle lame, i resti di un pranzo confusi nella poltiglia di carne e fango, il fuoco ancora ardeva su una pira improvvisata. L’odore era così acre da dare il voltastomaco, il fumo nero saliva al cielo, osceno sacrificio, autentica ecatombe.
Aristeas si accovacciò accanto al corpo di un cane, trafitto alla gola da una freccia, osservava le tracce, i segni dello scontro, cercava di farsi un’idea di come si fossero svolti gli eventi.
Aulo si fermò accanto al centauro e gli toccò un spalla, non conosceva parole che potessero essere di conforto. «I tuoi?»
Aristeas si alzò lentamente continuando a passare in rassegna con lo sguardo ogni dettaglio di quello sterminio, come a volerlo incidere a fuoco nella memoria «Senza alcun dubbio»; il centauro estrasse una freccia conficcatasi in un tronco e la mostrò al fauno accarezzando con cura la punta e l’asta «Li ho lasciati a Cuma per curarmi una distorsione ad una zampa», alzò lo zoccolo posteriore destro e colpì il terreno più volte «Portavo un ritardo di una settimana, tanto è bastato per perderli per sempre». Tacque a lungo, poi sembrò come ridestarsi da un sogno «Hai mantenuto la parola data, fauno, sei libero di tornare alle tue pastorelle e ai bastoni dei loro mariti».
«Tu che farai? Potresti partire, come gli altri».
«Tu non sei partito, perché consigli a me di farlo?»
Aulo rise ma senza gioia «Dicono che oltre il confine, vivono contadine robuste con seni grossi che producono vino di grano che sazia la pancia. Magari ci sono anche pascoli aperti e sconfinati dove altri branchi corrono liberi».
Aristeas scosse la testa «Sono vecchio per correre dietro alle contadine, troppo vecchio per dover ricordare tutto questo. Tu invece sei ancora nel pieno della tua primavera, cosa ti trattiene in questi luoghi tristi?»
«Te l’ho detto, centauro, questi boschi sono la mia casa, non andrò via».
Aulo estrasse il flauto dalla bisaccia e intonò un canto funebre, Aristeas lasciò cadere la freccia a terra, chiuse gli occhi gonfi di lacrime che non volevano scendere e mormorò una preghiera.