ARENA DI SANGUE

Racconto in concorso

ARENA DI SANGUE

Di Kenji Albani

«Tutto sulla chimera».

«Punto sull’orso».

La gente acclamava, gli allibratori facevano affari d’oro, Erasmus si fregava le mani.

Nell’arena la chimera zipanghese fronteggiava l’orso spinato. Erano appena entrati e si stavano studiando.

Erasmus osservò lo spettacolo. «Non mi piace, si corre il rischio che il pubblico si annoi. Igor, fa’ qualcosa».

Il nibbico si fece avanti. «Agli ordini, capo». Afferrò un arpione e colpì la coda della chimera.

Il serpente che aveva per coda sibilò rabbia e la chimera si fece sotto.

Dall’altra parte, gli aiutanti di Erasmus fecero lo stesso con l’orso spinato.

La belva si mise a quattro zampe, inarcò la schiena e con essa le spine che gli ricoprivano il corpo. Ringhiò. Sbavava.

La chimera non si fece intimidire: balzò all’attacco dell’antagonista mentre la testa di drago che aveva sulla schiena vomitava fuoco, trasformando l’arena in un caos di lava e fiamme.

Il gattone a strisce colpì con gli artigli le spine dell’orso e miagolò tutto il suo dolore.

Gli spettatori sputavano: «L’orso, vince l’orso! Cento sesterzi sulla daniscanva».

La chimera si accoccolò sulla sabbia, il sangue che emanava vapori velenosi, l’orso spinato ruggì: aveva vinto.

Ma non era ancora detto.

Erasmus fece un cenno a Igor. Il nibbico e gli altri aiutanti spinsero con gli arpioni l’orso spinato a fare di meglio.

La bestia daniscanva lanciò un ruggito spaventoso, gli occhi iniettati che sembravano rubini, si tuffò sulla chimera.

La chimera l’accolse con un ringhio acuto. Da che sembrava sul punto di capitolare, sgusciò via.

L’orso spinato la inseguì ma la coda dell’antagonista si avvolse a una sua zampa inferiore e la creatura scivolò in maniera vergognosa. Perse delle spine e il pubblico rumoreggiò: «Centocinquanta sesterzi sulla chimera. Tutto sulla chimera».

«Erasmus, ci sono degli amici che vogliono fare la tua conoscenza» avvertì Igor.

A Erasmus sfuggì uno sbuffo. Si fosse trattato di amiche… Davanti a sé si pararono due avanzi di galera. «Chi siete?».

«Rufus». Era un folletto alto, robusto.

«Zeke». I lineamenti erano rozzi e aveva una cicatrice sul volto.

«Non vi ho mai visti. Voi conoscete me, ma la cosa non è reciproca».

«Siamo qui per investire dei soldi» disse Rufus. Fece un cenno al compagno.

Zeke prese da una tasca della giubba un sacchetto che si intuiva pieno di monete tintinnanti.

«Molto bene. Venite con me». Erasmus non vedeva l’ora di mettere le mani su del nuovo denaro.

Li condusse fino al suo ufficio e, una volta lì, chiuse la porta. «I miei clienti sono degli esagitati».

Rufus e Zeke si sedettero.

Erasmus si accomodò alla scrivania imponente, non a caso gli era costata molti sesterzi. «Di cosa si tratta?».

«Dobloni». Rufus invitò Zeke ad appoggiare il sacco sul legno della scrivania.

«Quanti sono?».

Zeke aveva appoggiato il sacco sul mobile, lo stava aprendo.

«Vengono dall’Ovest Misterioso. Vogliamo investirli in un’attività qui nell’Ansa».

«Il giro delle scommesse clandestine è molto redditizio». Erasmus stava per allungare le mani sui dobloni ma Zeke lo bloccò inchiodando un pugnale sul legno.

«Che modi!» protestò Erasmus.

Zeke rise, Rufus lo fece calmare. «Perdonalo. All’Ovest Misterioso usiamo dei metodi… poco civili».

«Vedo che questi dobloni sono parecchi».

«Li abbiamo guadagnati con delle rapine».

«Chi avete rapinato?».

«Navi zipanghesi. Erano il frutto di alcuni saccheggi a una delle basi dei loro nemici… Chi, fra i tanti, non lo so, ma non serve saperlo. Là fuori c’è un po’ di gente che vuole metterci le mani. Che maleducati» fece una risata.

«Che maleducati, è vero». Erasmus non ci trovava nulla da ridere, ma sghignazzò lo stesso.

Rufus lo fece tacere. «Al cambio attuale un doblone fa…».

«Questo non è fondamentale. Siamo tutti amici, beviamo un po’». Erasmus suonò un campanello.

Arrivò Igor. «La chimera sta…».

«Non mi interessa. Portaci dell’acquavite. I miei carissimi ospiti ne hanno bisogno».

Igor era un po’ sciocco. Li contò. «Tre calici. D’accordo».

Si ritirò.

«Scusatelo. L’ho trovato al porto di Edimdam che non sapeva allacciarsi le scarpe. Sono stato io a dargli un tetto sotto il quale dormire dopo che ha lasciato l’Impero Nibbico, o meglio quel che ne rimane». Anche se ne parlava così, era bastato la parola “carissimi” per far capire cosa pretendeva che l’aiutante facesse.

«Non fa nulla». Rufus fece un gesto sbrigativo con le mani. «Non sei l’unico che ha un collaboratore idiota».

Rufus ed Erasmus risero insieme, Zeke abbozzò un sorriso stupido.

Arrivò Igor. Dal vassoio servì tre calici. «Tutto molto buono».

Si ritirò ancora una volta.

Erasmus non voleva bere. «Non bevete, voi?».

Zeke stava per dissetarsi, Rufus agitò il capo. «Non me la sento. Preferisco parlare di affari».

«Ma se si beve poi ci si sente più in vena a parlarne». Erasmus voleva dimostrarsi un ottimo ospite.

Lo scagnozzo di Rufus bevve con allegria.

Rufus guardò con attenzione Erasmus dopo aver scoccato un’occhiata truce all’amico. Al suo contrario non bevve. «Dopo. Prima una firma».

Là fuori, il combattimento tra le belve stava proseguendo, il pubblico era sul punto di impazzire.

«Quale firma?». Erasmus si chiuse in se stesso.

«Come, Zeke non te l’ha detto? Zeke, razza di imbecille, non lo sa!».

«Scusami, Rufus. Io credevo…».

«Di cosa si tratta?». La voce di Erasmus risuonò come un colpo di sferza.

«Fra noi si usa così. Siamo tutti bravi ragazzi che rispettano le leggi, e bisogna sempre pensare alle apparenze».

«Apparenze?».

«Esatto. Ci sono sempre tanti gendarmi che ci rendono la vita difficile. Basta una firma e tutto si mette a posto». Dalla tasca del mantello nero aveva tirato fuori una pergamena. La srotolò.

«Non è la prassi che conosco io». Si indurì. «Credo che l’affare finisca qua».

Rufus rimase impassibile. «Come non detto. Zeke, vieni via, Erasmus non è nostro amico».

A Erasmus non fregava nulla della loro amicizia ma quando vide Zeke afferrare tutti i dobloni fino all’ultimo e reinfilarli nel sacchetto, si sentì come se stesse facendo una cosa stupida.

«No» si lasciò scappare.

«No cosa?». Rufus lo ponderò con lo sguardo.

«Quei dobloni… li desidero. Firmo».

«Firmi?».

«Sì». Non si spazientì perché non li voleva infastidire.

«Padrone di sé». Gli spinse sotto il naso il rotolo.

Erasmus iniziò a leggere. Rufus soffiò come se stesse commettendo una pazzia. «Firma e i dobloni sono tuoi». Li fece tintinnare.

Erasmus firmò senza attendere un minuto di più.

«Fatto». Gli porse la pergamena. «A me i dobloni».

Rufus, con lentezza esasperante, prese il rotolo, controllò tutto, alla fine fece un sorriso di gioia – ma che a Erasmus sembrò di scherno.

«Hai firmato!».

«Ha firmato?». Zeke aveva in volto un’espressione di trionfo.

«Zeke, avanti».

Il tirapiedi di Rufus gettò il sacco in faccia a Erasmus che non stava capendo.

«Ehi, che modi» protestò di nuovo. Quando sentì i dobloni rotolare sul pavimento, non ci vide più. «Sono miei, miei».

Il piede di uno dei due bloccò con il piede un doblone, lo calpestò inchiodandolo come se dovesse stare lì per sempre.

«Il doblone è mio, ho detto». Erasmus alzò lo sguardo e non avrebbe mai voluto perché Zeke lo fissava con occhi pieni di follia.

Forse non avrebbe dovuto dire la parola “carissimi” perché così Igor non avrebbe svuotato il veleno nell’acquavite.

Zeke lo sollevò di peso. Lo afferrò per le braccia.

Erasmus scalciò e Rufus aiutò il tirapiedi prendendolo per le gambe.

Lo portarono via.

«Che fate! Sono il capo, io, qua».

Rufus gli alitò in faccia: «Hai firmato, criminale, hai firmato una deposizione davanti a dei gendarmi anseatici e quel che ti spetta è l’esecuzione sommaria, lo dice la legge».

«Cosa? Siete gendarmi? Non è possibile!». Si rese conto di essere stato troppo impulsivo, l’avidità gli aveva suggerito di firmare senza attendere che bevessero tutti e due l’acquavite.

«È la legge, ti ho detto» sibilò Rufus. Sempre che fosse il suo vero nome.

Il pubblico non fece attenzione alla scena se non quando i due gettarono Erasmus nell’arena dove l’orso spinato e la chimera zipanghese si stavano massacrando.

Un «Oh» corale si sollevò dagli spettatori.

Erasmus non ci avrebbe mai giurato che fosse tanto brutto da quel punto di vista.

L’orso spinato mulinò le braccia come a volergli spezzare le ossa.

La chimera mise in mostra le zanne.

Erasmus scappò verso la parete più vicina, con l’intenzione di arrampicarcisi sopra, ma una zampata gli squarciò la schiena a giudicare dal dolore bruciante che sentì. La penultima cosa che vide fu Zeke che si accasciava al suolo con la bocca che sbavava – lui era stato l’unico a bere l’acquavite – l’ultima le fauci dei mostri che gli si chiudevano sulla faccia.

Una risposta.

  1. Alessandro Ricci ha detto:

    Voto questo racconto

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